di Marco Chiappetta
TRAMA: Coney Island, anni ’50 – La vita mediocre di Ginny (Kate Winslet), attrice fallita ridottasi a fare la cameriera in un ristorante di pesce, e del rozzo marito Humpty (Jim Belushi), manovratore delle giostre al luna park, è sconvolta da due eventi: il ritorno della figlia ripudiata di Humpty, Carolina (Juno Temple), in fuga dagli sgherri del marito gangster che ha denunciato, e l’incontro sentimentale di Ginny con Mickey (Justin Timberlake), bagnino dalla verve romantica e con aspirazioni letterarie. Quando però anche Carolina si innamora, ricambiata, di Mickey, la vita di Ginny sprofonda ancora di più in un abisso di disperazione.
GIUDIZIO: Opera no. 48 di Woody Allen, ambientata in quella Coney Island anni ’50 già evocata nei flashback infantili di “Io e Annie”, aggiunge poco alla sua filmografia, rimestando alcuni elementi tipici del suo cinema – il ritratto di una donna in crisi, matrimoni infelici e adulteri di illusoria felicità, le frustrazioni intellettuali e le passioni tragiche di una borghesia (qui piccola piccola) senza speranza – ma con una routine di scrittura e un’aria di stanchezza che precludono qualsiasi spazio ai colpi di genio e alle sorprese narrative. Se Kate Winslet, con la sua performance viscerale e i suoi monologhi disperati à la Tennessee Williams, entra di diritto tra i grandi ritratti di donna firmati dal cineasta newyorkese, e Jim Belushi (in un aggiornamento del marito rude interpretato da Danny Aiello in “La rosa purpurea del Cairo”) e Juno Temple sono efficaci, ma Justin Timberlake, con tutto l’impegno, non ha il carisma e l’ironia per ambire a un giovane alter ego dell’autore: una scelta di casting incredibilmente infelice. Minore e forse dimenticabile, né troppo serio né troppo leggero, il film vale la pena di essere visto soprattutto per i virtuosismi cromatici e le magie digitali del direttore della fotografia Vittorio Storaro, che col pretesto dell’ambientazione da luna park cambia luci e colori, dall’ocra all’amaranto passando per il blu più freddo, anche durante la stessa inquadratura, con un estro che è al tempo stesso magistrale e sperimentale. Una fotografia pittorica, suggestiva come un dipinto di Hopper, così bella che sembra essere il fine e non il mezzo dell’opera. Paradosso per un regista così cerebrale e profondo come Woody Allen, per una volta il contenuto passa in secondo piano rispetto all’estetica.
VOTO: 3/5