di Marco Passero
“Oggi l’Egitto è una democrazia di cartone”, scrive senza mezzi termini il quotidiano britannico The Guardian, e l’affermazione appare quanto mai legittima alla luce dei recenti sviluppi politici locali. Il potere è nelle mani dell’esercito, rimasto nell’ombra ma, dal 2013, capace di gestire la violenta repressione degli oppositori. I militari sono saliti al potere rovesciando il presidente Mohamed Morsi e i Fratelli musulmani, uccidendo più di ottocento persone.
L’attuale presidente è Abdel Fattah al Sisi, la cui linea dura sta avendo conseguenze devastanti sul paese. Le politiche del generale, sesto presidente della Repubblica egiziana, hanno alimentato – e continuano a farlo – la nascita di terroristi i cui violenti gruppi armati hanno colpito le forze dell’ordine e i civili con attentati e omicidi. Nel Sinai una sanguinosa guerra voluta da al Sisi ha addirittura creato una roccaforte per il gruppo Stato islamico. La sua austerità ha inoltre schiacciato la società civile, annullando le possibili conseguenze democratiche di quella rivoluzione che nel 2011 era stata il punto più alto della primavera araba e polverizzando ogni minima possibilità di assenso cittadino alle pesanti misure economiche che negli ultimi mesi hanno portato alla svalutazione della sterlina egiziana, con conseguente aumento del prezzo dei beni essenziali e crescita verticale del debito.
Anziché preoccuparsi di tutto quanto sta accadendo, tuttavia, al Sisi sembra più concentrato sulla costruzione di se stesso e di una nuova capitale amministrativa, mentre il tasso di povertà è aumentato del 25% in due anni e non c’è traccia di misure ad hoc per contrastarlo.
Dinanzi a questo scenario le elezioni presidenziali (annunciate lo scorso 8 gennaio per il prossimo 26 marzo) dovrebbero, teoricamente, poter rappresentare per i cittadini una speranza di cambiamento. Ma se la stampa internazionale parla di “farsa del voto in Egitto” è perché tali elezioni si svolgeranno in un contesto ancor più democraticamente fatiscente e degradato di quello vigente all’epoca di Mubarak. L’arresto, la violenza fisica e l’esilio nei confronti di ogni candidato alla presidenza che tenti di presentarsi alle elezioni (“Il presidente egiziano non vuole avversari”, ha scritto il giornalista francese Bernard Guetta) sono diventate l’abitudine. Spesso si tratta di detenzioni di poche ore, ma sufficienti a far ritirare “spontaneamente” le candidature.
Ma ricordando la rivoluzione e le sue ragioni profonde, proprio in un contesto di censura della memoria rivoluzionaria stessa e di amnesia politica, gli attivisti hanno un’arma concreta nelle proprie mani, legata al coraggio di boicottare le elezioni, come richiesto in un appello lanciato da un gruppo di partiti e di esponenti dell’opposizione. Elezioni nelle quali l’unica candidatura accettata è stata quella di un fedelissimo del generale Abdel Fattah al Sisi: quest’ultimo, eliminando qualsiasi opposizione democratica, vuole proclamarsi unico bastione contro l’islamismo.