di Gianmarco Botti
È stato annunciato oggi, alle 13.00 in punto, il nome del vincitore del premio Nobel 2010 per la Letteratura, infrangendo la consolidata tradizione che vuole che la nomina avvenga a sorpresa. Nondimeno si è trattato di una sorpresa. Anche quest’anno, infatti, nell’attesa di questo fatidico momento, i bookmakers si erano sprecati nei pronostici. E l’Accademia di Stoccolma, assegnando il prestigioso riconoscimento al peruviano Vargas Llosa, li ha lasciati a bocca asciutta. È stata la scelta di un autore affermato e pluripremiato, comparso spesso nella rosa dei papabili nelle ultime edizioni non meno di quel Philip Roth che sembra sempre il favorito, ma poi non ce la fa mai. Una scelta in controtendenza con quella del 2009, caduta sulla poco conosciuta Herta Müller e con quella che i famigerati scommettitori paventavano anche per quest’anno, se è vero che in questi giorni il nome che circolava con più insistenza era quello di Tomas Tranströmer poeta, psicologo e traduttore svedese, con all’attivo una sola opera, “La lugubre gondola”.
In qualunque modo la si voglia considerare, quel che è certo è che premiando lo scrittore peruviano, il primo della storia e dopo 28 anni il primo sudamericano, l’Accademia di Stoccolma ha fatto una scelta di campo. Almeno nella misura in cui, Llosa non ha mai voluto rimanere fuori dal “campo”, quello della politica e della storia, si intende, gettandosi anzi in esso con la forza dell’autore impegnato, determinato a indagare nel profondo le contraddizioni del Sud America di ieri e di oggi; per questo ha corso anche il rischio di essere travolto dall’onda della Storia, una storia, quella del suo Paese, fatta soprattutto di sangue. È la stessa Accademia a mettere in luce quest’aspetto, quando afferma chiaramente di aver scelto di premiare la penna già consacrata da opere come “La città dei cani” e “La zia Julia e lo scribacchino”, “per la sua cartografia delle strutture del potere e la sua tagliente immagine della rivolta, della resistenza e della sconfitta dell’individuo”. Non è un intellettuale di quelli che se ne stanno ai margini della società e della Storia quasi vogliano non avere a che fare né con l’una né con l’altra; Vargas Llosa nella sua opera, a partire da quel “La città e i cani” bruciato in piazza dai militari perché ritenuto dissacrante per il ritratto che fa di un collegio militare di Lima, applica compiutamente il principio affermato dal filosofo e suo grande amico negli anni parigini Jean-Paul Sartre secondo cui il vero intellettuale deve “sporcarsi le mani” con la realtà. Credo sia stata questa la scelta dell’Accademia di Stoccolma. La stessa fatta, comunque la si pensi, nell’assegnazione del Nobel per la Medicina, lunedì scorso, all’inglese Robert G. Edwards, padre della fecondazione in vitro: in entrambi i casi abbiamo di fronte figure che, ciascuna nel proprio ambito, si tratti della scrittura oppure della ricerca biomedica, hanno portato un contributo gravido di effetti nel sociale, che coinvolge piano etico e politico, incidendo fortemente sul reale. È questo che Vargas Llosa ha sempre fatto, prima avvicinandosi alla rivoluzione cubana, poi allontanandosene fino a scontrarsi anche fisicamente per delle divergenze sul castrismo con Gabriel Garcia Màrquez di cui rappresenta l’alter ego nell’ambito della letteratura sudamericana; passando poi per una candidatura priva di successo alle presidenziali del 1990 in Perù fino ad approdare a posizioni liberiste e fortemente critiche verso noti leader della sinistra sudamericana come Chavez e Morales. Un personaggio controverso, difficilmente collocabile in schemi preconfezionati, dunque, ma che non è mai venuto meno al suo impegno civile, trasferendolo con convinzione attraverso la sua penna raffinata in pagine di grande valore. È tutto questo che il Nobel da lui ricevuto oggi ha voluto significare.