di Gianmarco Botti
Oggi pare affermata l’idea di una necessaria separazione fra la politica e la morale, fra il pubblico e il privato, fra realtà sociale e individuale. Secondo una parabola discendente, a partire dalle acute riflessioni di Niccolò Machiavelli sulla sostanziale estraneità del dato morale rispetto a quello politico, si è arrivati fino alla netta scissione dell’uomo dal cittadino, posta a legittimazione dell’idea, oggi in gran voga, per cui i comportamenti privati non avrebbero alcun rapporto con quelli pubblici.
I filosofi greci non sono d’accordo. Soprattutto Platone, che nella Repubblica ci ha dimostrato quale stretto legame intercorra fra queste due polarità, che nella storia delle idee troveremo quasi sempre contrapposte. Per il filosofo della dialettica, fra “uomo interiore” e “uomo esteriore” non c’è opposizione, anzi, ci deve essere identità. Questo lo dimostra il Socrate di inizio dialogo quando, alla ricerca dell’essenza della giustizia all’interno dell’uomo, suggerisce ai suoi interlocutori un ardito esperimento:
“Dovremmo condurre la ricerca nello stesso modo di chi, del tutto privo di buona vista, e richiesto di leggere da lontano lettere in piccolo, si rendesse conto allora che le stesse lettere si trovano altrove scritte più in grande e su un supporto maggiore”
Questo supporto più grande su cui la parola giustizia può essere trovata scritta a caratteri cubitali è lo stato, la dimensione politico-sociale. Da questa rivoluzionaria omologia si sviluppa la celeberrima tripartizione dell’anima a cui corrisponde quella della compagine statale. Se l’anima è composta da una parte desiderante, da una collerica e da una razionale, la società sarà divisa, a seconda di quale componente psichica domini sulle altre, in tre classi: quella dei produttori, quella dei difensori e quella dei governanti. La giustizia sarà quindi il prodotto dell’armonia fra le parti, tanto quelle dell’anima quanto quelle dello stato. Anzi, l’armonia interiore dell’uomo è presupposto necessario di quella fra l’uomo e i suoi simili all’interno della società. Non c’è società giusta se non sono giusti i singoli che ne fanno parte. A riprova di questo, verso la fine del dialogo, Platone mostrerà come la degenerazione delle forme di governo (secondo il classico schema elaborato dallo storico Polibio e reso fortunato da Machiavelli) abbia la sua causa prima nella degenerazione morale dell’uomo. Questa si verifica quando la parte razionale perde il controllo sulle altre due e si liberano le energie peggiori all’interno dell’uomo. Si tratta di quei momenti della storia umana in cui pare realizzarsi l’inquietante profezia del pittore Goya: “il sonno della ragione genera mostri”. E, per non abbandonare la nostra omologia, in questi casi, nello Stato, che cosa succede? Succede che ad una politica “di testa” se ne sostituisce una “di pancia”, che trae la sua forza solleticando gli istinti più bassi della gente, primo fra tutti la paura. Non è forse su questo che si basa la propaganda dei movimenti xenofobi e populisti di tutto il mondo? Vale la pena ricordare un’ancor più efficace immagine che Platone usa verso la fine della Repubblica per rappresentare la divisione dell’anima: in essa la parte irrazionale è costituita da un orribile mostro dalle mille teste di bestie feroci e da un leone; la parte razionale si manifesta nella forma di un uomo. Ora, quando la politica fa appello alle componenti irrazionali del nostro io, è come se pascesse le due belve, indebolendo il piccolo uomo interiore, il quale perde ogni speranza di dominarle. La celebre espressione di Aristotele per cui l’uomo è “animale politico”, naturalmente portato alla vita in società, va collegata all’altra definizione aristotelica, che fa dell’homo sapiens innanzitutto un “animale razionale”. La vita insieme è possibile nella misura in cui la ragione garantisce l’armonia psichica dell’uomo, senza la quale la società e tutti i suoi componenti, rischiano sempre di finire nelle fauci di un terribile mostro policefalo.