di Brando Improta
Non so se vi è mai capitato di avere un pensiero fisso che vi attanaglia la mente, un qualcosa che non riuscite a cacciare via per quanti sforzi facciate. A me è capitato per la prima volta nel giugno di quest’anno e, da quel momento, ho sempre qualcosa dentro che fa più effetto della caffeina e che mi tiene sveglio la notte e in piedi relativamente presto al mattino. C’è di vantaggio che ho tanto tempo per pensare e per riflettere sulle cose, e credetemi, spesso, il pensiero è l’unica cosa libera che ci rimane. Ma prima di andare avanti con la storia, vorrei presentarvi qualche altro personaggio, alcuni outsider diciamo, importanti come e forse più di quelli descritti precedentemente. Biagio: nato nel mio stesso anno e nel mio stesso mese (proprio a pochi giorni da me), con le spalle grosse ma anche un po’ di pancia, abbiamo praticamente trascorso una vita insieme, dai banchi delle elementari fino a quelli delle medie e ancora dopo divisi nei licei ma uniti nell’amicizia. Lui non è sempre con noi, ha una fidanzata che gli ruba un poco del tempo che potrebbe trascorrere con gli amici, ma finché lo renderà felice sarà tempo bene e meglio speso. Simone lo conobbi per caso in funicolare andando a scuola, abita vicino casa mia e vedendoci ogni mattino siamo diventati amici. Lui fu il primo a dirmi di stare attento perché una certa cosa mi stava coinvolgendo troppo, ma come mentivo a me stesso, ancora più facile mi risultava farlo agli altri, degli episodi vissuti con lui ricordo che mi accompagnò fino in Toscana solo per fare un provino, giusto per dare una prova della nostra consolidata fratellanza. Poi c’è Chiara: lei è la mia migliore amica, ma proprio migliore migliore. Nnon ci vediamo spesso, anzi quasi mai, abbiamo avuto dei dissapori, qualche litigata un po’ pesante, ma ora so che qualsiasi problema io possa avere ci sarà lei ad ascoltarmi e spero lei pensi lo stesso di me. Ricordo che quando Eugenio partì per Milano, andai da lei e piansi per un’ora, non so davanti a quant’altri avrei mostrato questi segni di cedimento. Massimo è un altro caro amico, anche con lui in passato ho avuto un momento di incomprensione, e fu per causa mia, per uno scherzo partito divertente dalla mia testa ma che in pratica lo era molto poco per lui, la vittima; con lui parlo bene, sa confidarsi ma sa anche ascoltare senza mai far sentire il peso dei suoi pareri nel caso fossero contrari, siamo stati in classe insieme per poco meno di un anno ma in così breve tempo siamo diventati amici. Ci sarebbero tante altre persone di cui mi piacerebbe parlare, ma probabilmente ci sarà modo di farlo proseguendo, per ora mi limito a presentare un ultimo signore, che mi accompagna sempre da qualche anno a questa parte, una persona che è stata con me quando era il momento di ridere ma anche quando mi sentivo solo e mi mancava la forza di ricominciare da capo. Lo chiameremo Raffaele, con lui condivido anche un vuoto, un vuoto dato dalla mancanza di una figura importante ma andata via troppo presto dalle nostre vite. Raffaele è un’artista, nel vero senso della parola, spesso si perde, inizia qualcosa e magari non lo finisce, è incostante e imprevedibile, ma tutto questo penso sia compreso nel significato stesso della definizione di un’artista. Credo che da tutti gli episodi vissuti insieme posso estrapolare un’ immagine, che porterei sempre con me. Quando qualche giorno fa mi teneva la mano in ospedale e non la lasciava mai, e sentivo che quella stretta era importante, che racchiudeva tante cose al suo interno: amicizia fatta di cose non dette e che non c’è bisogno di dire, pacche sulle spalle che racchiudono consigli e “non ci pensare”, silenzi rispettati e parole dette solo quando c’era il bisogno di romperli.
Il giugno scorso la persona con la quale, con mio stupore e con una felicità che cercavo di non provare, parlavo di più sulla chat di Messenger era Francesca. Non erano conversazioni particolarmente intelligenti o piene di significato, anche perché quando ci si sente con una persona tutti i giorni non c’è molto da raccontarsi, ma mi andava bene così. Avevo il terrore di ammetterlo a me stesso ma già solo il sentirla e sapere che dedicava a me qualche minuto mi faceva stare bene. Un dialogo tipo, in quei giorni, era molto simile a questo: “Frocetto!” (Francesca con la sua delicatezza e la sua fine ironia mi desiderava su msn), “ohhhhhh!” (sempre lei che indisposta dal fatto che non ero vicino al computer cominciava a innervosirsi) e poi via discorrendo varie amenità e trilli assortiti per richiamare la mia attenzione. Fino al momento in cui ero libero e potevo. rispondere: “we, stavo magnando!” (le mie risposte si adeguavano al livello di volgarità dimostrato dall’iniziatrice della conversazione), “magni cosa magni ?”, “pranzavo.. ora ho finito”, “bleah!” (esclamazione di disgusto non ho mai capito se dovuta all’immagine mentale che aveva di me che mangiavo o a quella del cibo che potevo mangiare) e poi proseguiva “senti ma oggi che fate ?”, “nulla, Guido voleva scendere a prendere un caffè ma non sapevamo se tu e le altre avevate o meno da fare” (ti prego, penso io, non mi fare l’elenco di quello che dovete fare!), “allora Alice e Ludovica stanno studiando arte” (fesso io che ho posto la domanda) “io ho deciso di appendere storia e non ho un cazzo da fare fino alle sette!” (non chiederle di scendere Brando! Inventa una scusa, in fondo sai benissimo che non ti fa piacere vederla, ti è antipatica!), “mo dico a Guido se è ancora intenzionato a fare un giro, anzi parla con lui e fatemi sapere” (bravo! Così magari Guido deve studiare ed è lui a dirle di no), “Fatto! Scendiamo! Per te va bene alle quattro ?” (fesso due volte! Quando mai Guido passa un pomeriggio a studiare!), “Si, è perfetto!” (e sai qual è la cosa peggiore stupido Brando ? Che sei contento di vederla!) e arrivava il momento dei classici commiati “allora a dopo, salutami il prosciutto” (qua sono stato divertente, ho giocato sui suoi chiletti in più senza essere offensivo), “e tu il tuo amante, e ti faccio le condoglianze per il tuo apparato genitale scomparso!” (e qua mi ha fregato lei però, è stata arguta, un po’ volgare e io non so cosa rispondere!), “si te lo appoggio in testa la prossima volta, ciao lipida!” (la prima parte è da dimenticare, volgare e basta, però l’aggettivo è geniale) e chiudo la conversazione prima che lei possa rispondere ancora e costringermi a farlo a mia volta per non darle l’ultima parola.
Era il 4 giugno, non dimenticherò mai quella data, e la sera ci sarebbe stata la festa di un amico comune del gruppo, Giorgione. Aveva organizzato i celebramenti per il suo ingresso nella maggiore età in un ristorante all’interno del parco giochi Edenlandia, c’eravamo ovviamente tutti – e per me quella sera doveva essere quella giusta – per far uscire Francesca dalla mia mente. Conosco un metodo solo per annebbiare un sentimento sul nascere, bere molto, senza esagerare ovviamente, giusto quel poco per divertirsi ignorando la persona in questione e risvegliarsi il mattino dopo convinti che quello che si ha basta e avanza per continuare ad essere allegri e felici. C’era vino, c’era il freebar con superalcolici sempre aperto a partire dalle undici di sera, c’erano tanti amici e tanta voglia di ballare e divertirsi. Non so esattamente quale sia stato il bicchiere di troppo, forse quello bevuto nella classica gara del più veloce con Biagio o quello trangugiato per vedere Ginevra ubriaca, posso solo dire con precisione che, dopo aver riempito il festeggiato di torta, ho avvertito un senso di stanchezza, di intorpidimento generale ai muscoli del corpo, una grandissima voglia di stendermi e chiudere gli occhi, per un secondo soltanto ma magari anche per qualche infinito attimo in più. Mi misi a sedere rovinosamente sul muricciolo che circondava un aiuola del parco, arrivò Ginevra brilla che barcollava, mi si sedette in braccio e cominciò a dire: “Torniamo a casa presto, domani noi dobbiamo andare a scuola!”, avevo appena la forza di rispondere quando queste parole uscirono dalla mia bocca: “Un momento, fammi riposare un momento, riposa un poco anche tu, non possiamo tornare a casa così”. Ginevra mi si addormentò indosso, io chiusi gli occhi e da questo momento posso ricordare solo i vari segnali che ho sentito in tutto il corpo: mi facevano male i piedi, moltissimo, gli occhi potevano vedere ben poco se non una riproduzione sfocata del mondo circostante offuscata da una tremenda luce bianca, le orecchie distinguevano distintamente il suono familiare della voce di Daniele che mi ripeteva freneticamente: “Tranquillo, ti stiamo portando in ospedale, stai tranquillo!”
Ripresi completamente i sensi in una stanzetta del San Paolo di Fuorigrotta e sono tre le cose che ricordo di aver visto apparire ai miei occhi per prime, appena risvegliato da quello stato di incoscienza: un piccolo tubicino che dal mio braccio portava direttamente ad una flebo ormai quasi completamente vuota; Daniele e Guido vicino al mio lettino in paziente attesa insieme alle voci di Biagio e gli altri amici che aspettavano nel corridoio; e, la cosa che risaltò per prima all’occhio e all’anima, Francesca dall’altro lato del lettino, accanto alla flebo, con il volto visibilmente preoccupato che mi chiedeva: “Come va ?”, “Bene…” fu tutto quello che riuscì a dire a causa della bocca completamente asciutta, “Non ci credo… come mi chiami tu di solito a me ?”, “Chiatta!” non sarebbe stato quello che le volevo dire ma fu quello che voleva sentire come risposta per sincerarsi della salute riavuta; ricordo chiaramente il dottore che le chiese, un po’ inaspettatamente: “E’ il tuo fidanzato ?”, “No…” rispose prontamente lei “Per fortuna no!”
Non sapevo se sentirmi felice di aver avuto una risposta ai miei recenti stati d’animo o triste perché in fondo sentivo non essere la risposta che volevo avere. Ancora oggi ricordo com’era vestita Francesca quella sera in ospedale (e alla festa): indossava un vestito corto che lasciava scoperte le gambe, con una spalla leggermente più scesa dell’altra, era di un colore piacevole, leggermente roseo con alcuni disegni floreali dai contorni violacei ma vuoti al centro, i capelli li portava ricci con la parte superiore pettinata all’indietro. Non voglio assolutamente darvi a bere che sono un romantico e che tutti questi dettagli sono frutto della memoria del mio cuore, sono il banale risultato di una memoria fotografica che mi ha aiutato molto soprattutto nello studio. Eppure sapendo questo, non capisco come mai non mi riesce di ricordare il colore della cravatta che indossavo a quella festa né il vestito di nessuna delle altre invitate.