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Stefano Cucchi, un simbolo di dignità e non di morte

di Ilaria Giugni

A un anno dalla morte di Stefano Cucchi, viene pubblicato da Rizzoli “Vorrei dirti che non eri solo”. Sua sorella Ilaria, insieme con il giornalista Giovanni Bianconi, racconta di una famiglia normale, la sua, travolta da un decesso avvenuto in circostanze ambigue, sotto tutela dello Stato, e costretta a un calvario per fare luce sulla vicenda.
Nella notte fra il 15 e il 16 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene arrestato perché in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti, quindi tradotto al carcere Regina Coeli, non avendo ottenuto gli arresti domiciliari, perché schedato per errore come cittadino non italiano.
Appena sette giorni dopo, Ilaria e i suoi genitori apprendono della morte di Stefano perché gli viene notificato il decreto con cui il Pubblico Ministero ne autorizza l’autopsia.
Un decesso inspiegabile agli occhi dei parenti, visto che Stefano, giovane e in salute, aveva raggiunto il carcere con le proprie gambe, senza che nessun episodio che ne potesse causare la morte fosse avvenuto prima dell’arresto. Ecco, qui si deve cogliere un punto fondamentale: Stefano non aveva subito traumi che ne giustificassero il decesso prima di essere arrestato. Prima.

Il giorno successivo all’arresto, il padre incontra Stefano in tribunale e nota che il suo volto è visibilmente gonfio, come se fosse stato picchiato.
Per il resto della settimana, i familiari non riescono ad ottenere nessuna notizia del figlio, incastrati da week-end e complicazioni burocratiche, fino alla notifica della sua morte.
In questo lasso di tempo, portano rancore verso un figlio, un fratello che li ha delusi ancora una volta: Stefano, che già aveva frequentato una comunità per tre anni, era ricaduto nel tunnel della droga. Da parte sua, Cucchi, forse proprio perché credeva di averli delusi, decide spontaneamente di negargli ogni notizia delle sue condizioni fisiche, che ogni giorno peggiorano.
Entrato in carcere, Cucchi non mangia e non beve per una settimana, perdendo 15 chili. Ridotto ad una larva umana, gli occhi fuori dalle orbite, continua a non mangiare per rivendicare un suo diritto, quello di scegliere il proprio avvocato difensore, fatto dovuto, ma ignorato per tutto il periodo di detenzione.

Stefano non è collaborativo, lamenta forti dolori alla schiena. Più tardi si scoprirà infatti che, in seguito a percosse, aveva riportato la frattura di alcune vertebre. Per questo motivo, viene condotto all’Ospedale Pertini di Roma. Qui viene più volte visitato da medici e infermiere che riempiono referti superficiali, lamentando che il paziente non vuole scoprirsi. Il lenzuolo che copre il volto e il corpo di Stefano diventa l’alibi per non aver dato peso, per aver sorvolato sulle tragiche condizioni di un ragazzo di 31 anni, morto ignorato dal personale medico.

La storia di Stefano e dell’intera famiglia Cucchi, così come raccontata dalla stessa Ilaria, è una cronaca di vita reale, senza buonismi e finti elogi post mortem.
Lungi dalla Cucchi descrivere un santo o un “bravo ragazzo”, non è questo lo scopo del libro. Ilaria ripercorre le tragiche ore vissute dalla sua famiglia perché crede fermamente nelle istituzioni, nello Stato. E’ convinta che a nessun uomo, per quanto debole e colpevole di un crimine, possa essere negata la dignità e la vita. Vuole sapere chi ha causato la morte del fratello e perché. Niente di più.

Chi ha visto, anche solo per un secondo le foto scattate al corpo senza vita di Stefano Cucchi, sa che in quel corpo martoriato, scheletrico e segnato da vigliacche percosse, non si può leggere la civiltà di uno Stato.
Un paese nel quale si muore sotto tutela delle istituzioni non è un paese civile, è solo un paesucolo indegno.
Per questo, per la correttezza e la fiducia dimostrata dalla famiglia Cucchi nella giustizia, occorrono delle risposte, al più presto.
Perché, come desidera Ilaria, “il sorriso di Stefano resti impresso nelle menti di tutti coloro che gli hanno rubato i sogni e il futuro. Perché diventi il simbolo di dignità e non di morte”. Glielo dobbiamo.