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Crisi in Irlanda e l’effetto domino europeo

di Bruno M. Criscuolo

Ci risiamo.
Di nuovo si parla del rischio della fine dell’euro. Del tracollo della moneta unica.
E questa volta a farlo è addirittura il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. I motivi sono ormai tristemente noti: dopo che la Grecia ha mancato gli obiettivi di riduzione del disavanzo concordati con il Fondo monetario e l’Europa, si sono improvvisamente materializzati gli incubi sulla solvibilità dell’Irlanda e del Portogallo, che appaiono i prossimi probabili clienti del nuovo Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF). Per l’Irlanda si prospetta un pacchetto di aiuti di 50-100 miliardi euro messo a punto da Unione Europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale.
I problemi irlandesi non provengono direttamente dalle attività statali, ma dalle BANCHE che con investimenti spregiudicati ed irresponsabili hanno alimentato una bolla immobiliare, per poi ritrovarsi insolventi. Il governo, nel tentativo di salvare il sistema bancario, ha aperto una voragine, un vero e proprio buco nero nei conti pubblici (il deficit è al 32,5 per cento del Pil), e non ha oggi le risorse per salvare le banche dalla bancarotta senza rischiare la propria (o quella di entrambi).
Il debito pubblico irlandese si trova a livelli piuttosto bassi (64 per cento del Pil nel 2009, vedi tabella 1) e non presenta problemi di finanziamento nei prossimi mesi.
Al contrario, il debito privato, che somma quello di famiglie, istituzioni finanziarie e non finanziarie, ammonta a quasi nove volte il Pil. Ne segue che la soluzione alla crisi richiederà diversi passi. Nell’immediato la Bce, che già finanzia le banche irlandesi a tassi molto bassi, dovrà garantire i depositi per evitare il pericolo che una corsa agli sportelli e una fuga di capitali portino al collasso del sistema finanziario e dell’economia reale. Si dovrà poi porre mano a una drastica ristrutturazione del debito bancario, che, “ripulendo” i bilanci, chiuda le “banche zombie” e coinvolga nelle perdite i grandi creditori privati. Non è sorprendente che i severi piani d’austerità fiscale previsti dal governo (tagli per il 3,8 per cento del Pil nel 2010, e per circa il 5,5 per cento nel biennio successivo) non siano bastati a rassicurare i mercati. Sono necessari, ma del tutto insufficienti a evitare il crollo del sistema.
Come per il caso della Grecia, la nostra maggiore preoccupazione riguarda il rischio di contagio. Lo si intuisce dall’ andamento dei differenziali d’interesse dei titoli decennali dei “porcelli” (Pigs) rispetto ai titoli tedeschi. Gli spread,i tassi differenziale tra obbligazioni a rischio differente, di Grecia, Irlanda e Portogallo, in costante crescita da aprile si sono impennati a partire da novembre. È interessante notare che i riflessi sull’Italia (e sulla Spagna) sono finora stati contenuti, anche se il differenziale italiano, che era all’1,3 per cento il 20 ottobre ha quasi raggiunto il 2 per cento nei giorni scorsi.
La buona notizia è che il mercato assegna oggi al fallimento del sistema Italia nei prossimi cinque una probabilità notevolmente più bassa (intorno al 12,5 per cento) rispetto a quella di Irlanda (38 per cento) e Portogallo (30 per cento), e che l’impennata della percezione del rischio avvenuta in novembre non sembra avere significativamente contagiato l’Italia.
La cattiva notizia è che, negli ultimi giorni, la curva della probabilità di default dà segni di voler rialzare la testa. E le voci di un governo dimissionario in periodo di vendita di titoli di Stato rischiano di metterci in seria difficoltà con le agenzie di rating internazionali, il cui giudizio pende sul collo di ogni italiano come una spada di Damocle.