Da pochi giorni è uscito nelle sale “Noi credevamo”, film diretto dal regista napoletano Mario Martone in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, di cui racconta le tappe fondamentali.
La pellicola è stata accolta da reazioni contrastanti: molti sostengono che “Noi credevamo” non celebri l’Unità, che Martone non abbia dato la giusta chiave di lettura di un momento corale della nostra storia, una fase fatta di grandi sollevazioni e di folla, incentrandosi sul singolo, e non sul sentire di cui era animato il popolo tutto, sacrificando l’aspetto collettivo per quello individuale. Ebbene, effettivamente è così: chiunque si aspetti scene di folle sconfinate, cieca esaltazione degli eroi del Risorgimento, rimarrà certamente deluso. “Noi credevamo” non è un racconto epico, “Noi credevamo” racconta l’Unità d’Italia per quello che realmente fu: una sollevazione a metà, infiacchitasi ancor prime di concludersi.
Martone la racconta attraverso gli occhi di Domenico, giovane pieno di belle speranze, coscienzioso, membro della Giovine Italia. L’evoluzione del giovane Domenico, lo stravolgimento delle sue convinzioni rappresentano le tappe che portarono all’unificazione del nostro Paese. Dapprima l’imperante pensiero di Mazzini, secondo cui l’Italia doveva essere “unica e repubblicana”, poi l’ascesa di Casa Savoia a mo’ di salvatrice della patria.
Così i valori del giovane Domenico si disgregano lentamente, sino al crollo definitivo delle sue certezze, che fanno posto alla disillusione. Il passaggio fondamentale è costituito dal periodo appena successivo all’Unità: Domenico si unisce a Garibaldi per la conquista di Roma, ma vede la spedizione, guidata dagli ideali propri dell’unificazione, sedata dalle armate del Re d’Italia, dagli italiani che parlano piemontese e che, per questo motivo, rimangono ai suoi occhi solo piemontesi. E’ così che Domenico si accorge che qualcosa è andato storto: i suoi sforzi si sono rivelati vani, ha lottato per una causa di cui non è rimasto più nulla.
Martone racconta la consapevolezza del fallimento in una scena piena di pathos, nella quale Domenico, oramai disilluso, ascolta un discorso al Parlamento di Francesco Crispi, un tempo animato dalle sue stesse speranze, che promuove invece l’autoritarismo e la repressione. La rivoluzione risulta mancata, così come i suoi protagonisti risultano del tutto mancanti nei confronti della causa, snaturati per brama di potere. Da qui Domenico esprime tutto il suo rammarico in un lungo monologo, concludendo con la battuta che dà il nome al film “Noi credevamo”.
L’imperfetto è posto ad arte: esprime promesse disattese, cause tradite, parole gettate al vento.
Ed è questo che Martone vuole esprimere, è qui che sta la forza del film.
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