di Gianmarco Botti
Cosa c’entra Martin Luther King con Voltaire, Rousseau, Beccaria e Weber? Evidentemente qualche rapporto ci deve essere, se il Corriere della Sera ha deciso di chiudere la sua collana de “I classici del pensiero libero” con un volume, in uscita sotto Natale, che trae il suo titolo dal più celebre discorso dello storico leader afroamericano: “I have a dream”. Un’antologia dedicata a quei protagonisti del XX secolo che, come King, ma anche Gandhi, Mandela e Papa Roncalli, hanno promosso i valori dell’uguaglianza e della libertà, dei diritti civili e della pace. Conquiste straordinarie, le loro. Ma cosa hanno a che fare con la filosofia e con una serie di volumi, che, quantunque di varia natura, sono considerati tutti “classici del pensiero”? Sembrerebbe che i traguardi sociali e politici raggiunti da queste grandi figure appartengano al mondo dei fatti, per lo più considerato oggi come scisso, anzi antitetico a quello del pensiero e delle idee. Suonano invece più che mai attuali, soprattutto dopo il XX secolo, una secolo di fatti ma soprattutto di ideologie, le parole di Ippolito Nievo: “Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea”. Ovvero: dietro ogni grande azione c’è una grande idea. E, volendo esplicitare ancor più la questione, si può dire che dietro ogni grande uomo che con il suo agire cambia la storia c’è un grande filosofo. L’idea, l’intuizione geniale che ha fatto da filo conduttore alla vita personale e pubblica di un King e di un Gandhi e che ha differenziato la loro rivoluzione da ogni altra, è una e una sola: la nonviolenza. Una rivoluzione silenziosa la loro, ma di quel silenzio che fa davvero rumore. E questo proprio grazie a quella che il reverendo King definì “l’arma più potente a disposizione degli oppressi nella loro lotta per la giustizia e la dignità umana”. Un’arma di antico uso, non una novità assoluta per la cultura occidentale, ma che nel secolo scorso ha prodotto risultati impensati. Figlia dell’invito evangelico “a porgere l’altra guancia”, del principio della disobbedienza civile di Thoreau (il cui massimo esempio nella storia recente è stato il rifiuto, da parte della cittadina afroamericana Rosa Parks, di lasciare il suo posto sul pullman perché destinato ai bianchi), ma non solo. Non si può dimenticare l’esperienza di un uomo di nome Socrate che visse nell’Atene del V secolo a.C. e che, come accadrà a Gandhi e a King, morì per le proprie idee. Come loro, egli le aveva portate avanti in maniera assolutamente nonviolenta. “Far uso di violenza è cosa empia” amava ripetere il filosofo, che confidava troppo nell’arma della persuasione, l’unica di cui l’uomo possa servirsi nel far valere le proprie convinzioni, per accettare l’uso di metodi violenti, quando questa fosse fallita. Tutto questo Socrate lo ha testimoniato in maniera paradigmatica con la sua stessa morte, rifiutando fino alla fine di fuggire dalla prigione nella quale era stato rinchiuso per non infrangere e in definitiva fare violenza alle leggi della città. Eppure con la sua persona non è morto il messaggio, anzi l’apparente fallimento della sua esperienza umana ha dato alle sue idee una forza che ha attraversato i secoli. Recepite dal discepolo Platone, reinterpretate dal socratismo cristiano di Agostino, esse sono giunte fino alla nostra epoca in cui hanno trovato un nuovo banco di prova nei problemi della libertà e dell’integrazione, dei diritti e dell’uguaglianza. Il segno di come l’idea, quando è solida, continua a dire qualcosa alla coscienza dell’uomo anche a secoli di distanza. E così, la Giornata Mondiale per la Nonviolenza indetta nel 2007 dall’ONU per il 2 ottobre di ogni anno in ricordo della nascita del Mahatma Gandhi, suona anche come un tributo alla memoria del filosofo che si diceva convinto che “ad un uomo buono non può capitare nessun male, né in vita né in morte”.