di Marika Gallo
Democrazia: che melodia per le mie orecchie. Una melodia lontana, ma ancor oggi auspicata, sognata, vagheggiata e a malincuore ritrovata, ahimè, sepolta sotto le macerie di un’Atene ormai troppo distante nella memoria storica di alcuni, forse di molti, anzi troppi. Non esiste utopia più utopica, desiderio più irraggiungibile, o forse, direi, irrealizzabile. La sua eco più non domina, non impera sui suoni, sulle parole inopportune, insensate, ingiustificabili, che dimorano, seppur momentaneamente, nei miei padiglioni. Ma un pensiero, una domanda, quasi fastidiosa e al contempo la più adeguata in questa circostanza, mi stuzzica la mente, ironicamente ( e forse mica troppo): dov’è finito Hitler? Fuggito? Morto? Al riparo dai suoi stessi errori? Eppure mi sembrava ( tempo “imperfetto” ) di essere stata catapultata ai tempi dei miei nonni, quando ogni minimo gesto, ogni natural modo d’essere, era, contro natura, sottoposto a giudizio, di chi di giudizi proprio non sa darne. Siamo inglobati, invischiati come schifosi insetti in una dittatura silenziosa, meschina, che non ha il potere dei corpi come in un tempo passato. Qui si tratta di qualcosa di più subdolo: è la dittatura delle menti, è il potere sulla Cultura, sul Desiderio, sulla voglia di maturare, di forgiare il proprio spirito, la propria anima, strappata via da chi sa come manipolare, come sedurre una giovane mente, illudendola. Ma nessuno si è reso conto, o meglio, nessuno vuole ammettere di essere complice, connivente, scrollandosi così di dosso le proprie responsabilità. Tutti dormono. Sonnecchiano credendo stupidamente che quel sonno in cui si sono rifugiati li preserverà dalla guerra silenziosa che si svolge al di fuori della bolla di sapone che li coccola. Continuerò fino alla morte a ripetere che questa non è democrazia, questo è controllo della cultura, ormai monopolio dello stato. Chi come me sente di Amare il Sapere, di volerlo coltivare, non è altro che uno strumento dello “stato”, un piccolo, infinitesimale anello di quella catena, ormai malsana, chiamata società. Non dobbiamo restare a guardare questo mondo che “lentamente muore, a piccole dosi”, si abbandona dinanzi all’indifferenza, ormai diffusa, congenita, quell’indifferenza che ci scorre nelle vene al posto del sangue, nera come la pece, maleodorante come un wc e, purtroppo o per fortuna, letale. Quella che bevete al mattino al posto del latte, che mangiate a pranzo guardando le immagini che lente o repentine scorrono dinanzi al vostro sguardo perso, malinconico, il più delle volte apatico, assente e preoccupante.
Ma cos’è la democrazia? Non è e non deve rimanere una parola come tante, un lemma che vaga nel vuoto delle aule dei licei, venduto, affittato per un po’ da ciascuno per arricchire ed imbellettare un discorso. Non deve gironzolare come un’ape che salta da una bocca ad un’altra senza saper mai dove poggiarsi, sperimentando nuove e mai definitive dimore. Deve diventare qualcosa di più, deve trasformarsi, anzi ritornare alle sue origini, deve rivendicare il suo valore. L’etimologia della parola è già esplicativa, straordinariamente espressiva: “democrazia” viene comunemente definita “governo del demos”, del popolo cioè. Ma che significa? “Democrazia” deve essere la rappresentazione del popolo nel luogo delle leggi, nelle sedi del governo. Deve essere la nostra immagine proiettata là dove è necessario che ideologicamente ci siamo anche noi. E’ la nostra mente, la nostra anima, la nostra volontà di fare Stato, una società buona e saggia, che miri solo al bene e non al ben-essere, all’utilitarismo, al consumismo dei corpi, delle cose e delle menti. “Democrazia” sta lì, che gironzola, vagabonda ed aspetta da millenni che qualcuno la prenda per mano, la guidi, perché possa realizzarsi. “Democrazia” aspetta un popolo, un demos, aspetta qualcuno, una “massa profeta” che divulghi la sua parola, che diffonda il suo messaggio di giustizia. “Democrazia” attende pazientemente che il suo desiderio si avveri, attende di tornare a casa. “Democrazia” è come Ulisse, accumula esperienze, sta facendo un viaggio, sta conoscendo nuove realtà, nuove persone, ma ha una pazza voglia di tornare in patria, e la sua patria è qui, siamo Noi. “Democrazia” deve abitare in noi, e noi dobbiamo accoglierla, perché è la nostra unica via di salvezza. Non lasciamo che viaggi senza senso, senza meta, senza destino. Legittimiamo la sua singolarità, tuteliamo la sua origine e la sua significatività, non lasciamo che si perda negli inutili e mendaci meandri politici, ma che resti con noi e parta da noi, che permei le nostre idee, guidi le nostre azioni e si sostituisca alla radicata violenza, alla spregiudicata ingiustizia, scardini le convinzioni comuni, i pregiudizi, le idee infondate. E’ l’aria nuova, fresca, leggera, è l’aria della libertà che tutti desideriamo ma non riusciamo ad ammetterlo, perché ci fa comodo, ci è utile rimanere nell’oblio dei “mores”, della legge vera, anche se inginocchiati e costretti da convenienze, frustrati da inutili necessità. Dovremmo auspicare una nuova “morte di Dio” alla maniera nietzschiana, una ventata di aria pulita che ci risollevi dall’omologazione, dal “così deve andare”, dal “cosa posso farci io”, dalla convinzione che niente ormai si può più fare, che è già tutto scritto e che l’uomo non ha più nulla in suo potere. “Democrazia” è un’ottima alleata, compagna di una guerra pacifica e di una pace industriosa, efficiente, dinamica. Essa non va abbandonata al suo solitario destino, deve riemergere dalla nebbia, dalle ceneri del passato ormai distrutto e volutamente dimenticato. Solo così possiamo sperare che la nostra condizione di “esseri morali” possa incamminarsi verso nuove mete, attraverso percorsi senza dubbio migliori ed oltremodo straordinari.
«Spesso abbiamo stampato la parola Democrazia. Eppure non mi stancherò di ripetere che è una parola il cui senso reale è ancora dormiente, non è ancora stato risvegliato, nonostante la risonanza delle molte furiose tempeste da cui sono provenute le sue sillabe, da penne o lingue. È una grande parola, la cui storia, suppongo, non è ancora stata scritta, perché quella storia deve ancora essere messa in atto»
(Walt Whitman, Prospettive democratiche)