di Gianmarco Botti
“Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta”. Sono le celebri parole che nel I canto del Purgatorio Virgilio rivolge a Catone Uticense, guardiano di quel regno oltremondano in cui Dante e la sua guida fanno ingresso. La strenua ricerca della libertà del poeta fiorentino è degna di ammirazione da parte di chi, come l’Uticense, in nome di quell’ideale ha sacrificato la propria vita. In quella grande figura che Dante richiama dall’antichità romana per metterla al centro del proprio canto, si uniscono mirabilmente libertà politica e morale. Lo sprezzo antitirannico di colui che preferì il suicidio alla resa al potere di Cesare e la forza interiore di chi trascorse le sue ultime ore di vita nella lettura del “Fedone” di Platone, dedicato all’immortalità dell’anima. Un’immagine mitica che nel corso dei secoli ha continuato ad affascinare e che qualcuno vede ripresentarsi nella forza di certe scelte estreme, come da ultimo quella di Mario Monicelli, sfuggito ad un Cesare che aveva i tratti della vecchiaia e della malattia. Una libertà controversa, quella che riguarda la vita e la morte, la salute e la malattia, la dignità e lo sfacelo. “Siamo davvero liberi?” si chiedono oggi la bioetica, la filosofia, ma in realtà, nel profondo, ognuno di noi. Tecnologie biomediche a parte, è un dato incontrovertibile che non siamo liberi né di nascere né di morire. Perché, allora, quella più o meno breve avventura che si estende fra questi due momenti dovrebbe essere all’insegna della libertà? Questa domanda, la domanda delle domande, se la pone l’uomo di ogni tempo. Si può dire che ogni epoca “libertà va cercando”, mettendosi sulle tracce di questo sfuggente, misterioso fantasma che nessuno (come forse è naturale) è ancora riuscito a catturare nella sua identità profonda e nascosta. C’è stato un tempo che ha creduto di trovarla nel vessillo che una donna seminuda armata di baionetta agita nella potente rappresentazione de “La Libertà che guida il popolo” offertaci da Eugène Delacroix. È la stagione delle grandi rivoluzioni, sempre animate da un utopico disegno di libertà che le ha sospinte in avanti; quella stagione si è chiusa in Russia, quando si è pensato che l’uguaglianza potesse essere affermata proprio a danno della libertà. Negli ultimi decenni si è incorsi nell’errore opposto, tentando di affermare una libertà che prescindesse dall’uguaglianza, libertà di pochi che in realtà si chiama liberismo. È l’ultimo degli “ismi” del XX secolo, il padre della crisi che ci siamo trovati ad affrontare alla fine di questo primo decennio del Duemila. Da queste rovine storiche e culturali l’idea stessa di libertà è uscita intaccata, ridotta a poco più di una sbiancata etichetta. Uno slogan, un nome, usato e abusato anche dai nuovi partiti che il nostro Paese sforna ogni giorno. Il risultato è che quella parola misteriosa eppure così suadente ha preso a significare sempre meno. Per alcuni libertà vuol dire fare il proprio comodo, senza limiti, dimenticando il vecchio motto per cui “la mia libertà finisce dove inizia la tua”. “Nessuno ha amore più grande di chi sa rispettare la libertà dell’altro” diceva invece Simone Weil. E le sue parole diventano musica nella canzone di Gaber: “La libertà non è star sopra un albero”, ossia lontano e al di sopra degli altri, bensì è “partecipazione”, si esercita nella relazione e nel confronto. Una libertà, dunque, mai disgiunta dalla responsabilità, ed è questo il limite, il sacro totem dinanzi a cui l’arbitrio si deve fermare. I regimi totalitari di tutti i tempi hanno pensato di poterlo imporre dall’esterno. È dall’interno della coscienza dell’individuo che invece deve sgorgare la libertà che è responsabilità, la responsabilità che è libertà. Un matrimonio indissolubile, suggellato dai più bei documenti giuridici dell’età moderna, fra cui rientra a pieno titolo la nostra Costituzione, che alla forza dei diritti fa corrispondere quella dei doveri reciproci. Un connubio che si è incarnato storicamente in quelle grandi figure che fanno parte del patrimonio morale dell’Occidente: il pensiero va a Socrate e alla sua (libera) scelta di scontare la pena inflittagli, preferendo dunque la libertà della coscienza a quella del corpo. È la responsabilità la solenne unica risposta che l’uomo può gridare a gran voce alla domanda che lo accompagna da sempre e che sempre lo accompagnerà: siamo davvero liberi?