di Gianmarco Botti
“Che cos’è la verità?”. Se lo chiede Ponzio Pilato, nel Vangelo di Giovanni. Se lo chiede l’uomo dall’origine della sua storia. Verità. Parola solenne e insieme inquietante. Lo è ancor di più con quel punto interrogativo che pesa come un macigno (e al quale l’evangelista non farà seguire risposta). Il capofila dei dubbiosi di ogni tempo dà voce alla domanda più pressante che l’umanità si sia mai posta. Dubitare della verità. La verità e il dubbio. Apparentemente così distanti, eppure fatalmente legati come due facce di una stessa medaglia. La verità è la meta, il dubbio lo strumento per procedere verso di essa. In mezzo c’è la ricerca. Quella scientifica, religiosa, filosofica. Non è forse la verità l’obiettivo comune verso cui guardano queste così differenti espressioni dello spirito umano? La filosofia più di tutte sembra essere lontana dal raggiungerlo: a partire dalle sue origini, dalla ricerca di quell’“archè” che è principio di tutte le cose, verità profonda che si nasconde dietro il divenire del mondo, i pensatori si sono contraddetti gli uni gli altri intorno a ciò che “veramente è vero”. E così al pensiero, che cercava la verità per mezzo del dubbio, è rimasto in mano solo quest’ultimo. Severe sono le parole del matematico (e filosofo egli stesso) Alfred Tarsky: “La parola ‘vero’ come altre parole del nostro linguaggio quotidiano non è certamente priva di ambiguità. E non mi sembra che i filosofi che si sono occupati di questo concetto abbiano contribuito a diminuire la sua ambiguità”. Ambiguità, mistero, oscurità. Davanti a questa nebbiosa coltre difficile da penetrare l’unico atteggiamento possibile sembra quello dello scettico, colui che sospende il giudizio su tutto, convinto che della realtà non si possa avere alcuna conoscenza certa. È il disorientamento, la sfiducia, il dubbio portato all’estremo (ben altra cosa era il saggio dubbio cartesiano), la cifra del nostro tempo. Ma se l’antico scettico greco dubitava davanti ad un mondo che pareva nascondere la verità, lo scettico nuova maniera si trova in un contesto che sprizza verità da tutti i pori. Non una, ma tante verità. Alla domanda di Pilato, potremmo oggi fare eco così: “Quale verità?”. Ognuno ha la propria. Si dubita perché non si sa più a chi e a che cosa credere. Nella nostra epoca vere e proprie “agenzie del vero” ci vendono ogni giorno la verità a buon mercato: i mass media. E così spesso ci aspettiamo che essa venga fuori dal dibattito di un salotto televisivo, dal “confessionale” di qualche reality-show, dalle pagine di un giornalismo in troppi casi fazioso e pregiudiziale. Vero diviene allora ciò che vediamo (in tv per lo più), ciò che ci fanno vedere. Gli esempi di tutto questo, recentissimi anche, si sprecano. Si pensi alle interminabili dirette da Avetrana, con i continui capovolgimenti, i colpi di teatro spacciati per scoop. Ascoltiamo la verità di zio Michele, poi quella della figlia Sabrina, ancora quella degli altri componenti della famiglia. Ma, cosa assai inquietante da pensare, la verità su quel che accadde nel garage di casa Misseri probabilmente non la sapremo mai. Ci si dovrà accontentare di quella che si dice la “verità processuale” e resterà il dubbio che essa non coincida con la verità dei fatti. “I fatti sono stupidi”, affermava Nietzsche, quel che conta è l’interpretazione che se ne dà. E così, in assenza di una reale possibilità di capire come sono andate davvero le cose, ognuno dà la propria personale interpretazione. È quel che stiamo vedendo da ultimo i questi giorni con il continuo emergere di particolari piccanti, dichiarazioni e smentite sulle bollenti serate di Arcore. Anche da quella villa forse non verrà fuori tutta la verità. Probabilmente, questo è il rischio, neppure quella processuale. La logica è: troppe verità, nessuna verità. A questo scetticismo profondo qualcuno si ribella con una reazione di forza uguale e contraria: troppe verità, allora ne scelgo una che faccia al caso mio e questa diviene l’unica. È il rischio del fondamentalismo religioso, della partigianeria politica, della faziosità ideologica. Da questo diabolico circuito pare difficile uscire. A mio parere, invece, un modo c’è. È quello di recuperare il senso autentico delle cose. Di una verità che non si impone, che non ha i paraocchi e che si mette in discussione sollecitata da un costruttivo dubbio critico. Di un dubbio che non demolisce ogni cosa, illuminato da una verità che si sforza sempre di cercare. Verità e dubbio mai disgiunti per un atteggiamento più intellettualmente onesto ed equilibrato verso il mondo. Riscoprendo la positività e la complementarità di tutti e due. “Il dubbio”, afferma il sacerdote protagonista del bel film omonimo, “può essere un legame tanto forte e rassicurante quanto la certezza”.