di Danilo De Luca
Qualche giorno fa scorsi in rete alcuni messaggi inzuppati di sdegno, che urlavano all’imbarbarimento della società e ne denunciavano la pochezza dei riferimenti valoriali. Benché solitamente ignori tale leit motiv (ho deciso di sottrarmi alla “gloriosa” rivoluzione del sistema televisivo non acquistando il digitale terrestre, facendo, così, a meno sia di Mediaset, che dei suoi detrattori, che, affetti da Sindrome di Stoccolma, continuano a guardarne i programmi), la curiosità mi spinse a ricercare su youtube la trasmissione incriminata: “Questa sera che sera”, condotta dalla imperitura Barbara D’Urso. La puntata in questione vedeva la partecipazione, in videoconferenza, del regista e attore Francesco Nuti, ridotto ai minimi termini da un grave incidente domestico. Per sei minuti, lunghissimi, interminabili, un maxischermo in studio fissava un viso stravolto dal dolore, mugulante, intriso di saliva, di sudore e di lacrime. Colonna sonora di questa straziante scenografia la voce neutra e squillante della D’Urso e gli auguri di pronta guarigione di vari vip, allegri e opportuni nella misura in cui fossero stati destinati ad un infortunio banale, non certo ad un malato grave.
Tale spettacolo mi ha completamente disorientato. Ho sperato che, alla luce una analisi attenta dei contenuti, la trasmissione si rivelasse ben lontana dal solito stereotipo della tv-latrina, propinata agli idioti per far arricchire di i furbi.
Ho scartato subito l’ipotesi che la conduttrice volesse approfondire il drammatico tema dell’assistenza ai familiari bisognosi di continue cure, dal momento in cui alcun riferimento in tal senso è stato neanche distrattamente accennato. Con la medesima immediatezza ho cestinato l’ipotesi che la presenza di Nuti costituisse una velata risposta alla trasmissione “Vieni via con me”, che ha concesso uno spazio alla moglie di Pier Giorgio Welby, scatenando le proteste dei comitato pro vita: la banalità e la disinvoltura con cui la D’Urso ha condotto il programma esclude categoricamente una possibilità in tal senso.
Mi sono rassegnato, allora, all’idea che tutto sia stato costruito per fare audience, spiattellando, per la sazietà di tanti cultori del cattivo gusto, l’ennesima sofferenza umana.
È oramai scontata e comune l’asserzione che l’italica civiltà viva una degenerazione innanzitutto culturale, che trascina nel baratro tutte le altre declinazioni sociali. Affermazione che acquista una certa concretezza se, mancando, almeno una volta, di assumere come termine di paragone gli stati esteri, ci si confronta con il patrimonio valoriale tramandato dai nostri predecessori. Ma i nostri “laudatores temporis acti” omettono, ad ogni sfogo misoneista, di indicare una soluzione. Essendo privo di una fonte inesauribile di risorse, quale la mitica borsetta di Mary Poppins (o, facendo, come impostomi sopra, un riferimento a casa nostra, il ricettario di Suor Germana), manco anche io di una proposta immediatamente applicabile e funzionante. L’unica risposta valida che sia riuscito a darmi, conscio che sia il parto travagliato di una mente troppo sognatrice, è la necessità di proporre agli altri quanto vi sia sia bello, di curioso, di eccezionale: prodigarsi per sradicare i falsi idoli dalle piazze e impiantarli nelle assolate campagne italiche dove crescono timidi virgulti, affinché, goffi spaventapasseri, nudi nella propria dappocaggine, scaccino l’ignoranza sparviera.