di Gianmarco Botti
Se qualcuno ha seguito la puntata di “Ballarò” di questa settimana, probabilmente sarà rimasto colpito come me da una frase pronunciata da Nando Pagnoncelli, direttore dell’IPSOS. Verso la fine della trasmissione, dopo aver mostrato i dati sugli orientamenti di voto e il consenso di cui godono i leaders politici, l’“uomo dei sondaggi” ha detto, semplicemente: al di là delle appartenenze partitiche e delle visioni ideologiche, gli italiani oggi ritengono per lo più che la politica consista nella gestione dell’esistente piuttosto che nella programmazione del futuro. Si tratta di un dato generale, non quantificabile in percentuali. Un sentimento comune, diffuso. Di sfiducia, incertezza, paura del futuro. Non posso dire di sentirmene del tutto immune. E d’altronde, le motivazioni ci stanno tutte. Se la politica si è ridotta ad amministrazione di condominio, il condominio-Italia, perdendo il suo afflato visionario che la proiettava in avanti, sarà perché negli ultimi anni abbiamo avuto sempre più politici e sempre meno statisti, per dirla alla maniera di uno che di quest’ultima categoria faceva parte a pieno titolo, Alcide De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista alle prossime generazioni”. Il rapporto con la politica non è che la cartina di tornasole di un più vasto stato di malessere in cui versa il nostro Paese e non solo. La generazione di chi come me ha vent’anni e non solo. Il fatto è che, nel bene e nel male, la nostra vita continua ad essere fortemente condizionata dalla politica, anche quando non ce ne interessiamo. “Se non ti occupi della politica, la politica si occuperà di te”, recitava un vecchio slogan. Mi tornano in mente le parole di don Lorenzo Milani quando, a dei giovani che sostenevano che la politica è una cosa sporca, rispondeva: “Che senso ha avere le mani pulite, se si tengono in tasca?”. Certo, non è facile tirarle fuori. Non lo è neppure però stare a guardare. Sentire ogni giorno i dati sulla sempre crescente disoccupazione giovanile, sulla sempre più copiosa fuga di cervelli all’estero. Assistere al tragico crollo morale e civile di una nazione che arriva malconcia al suo 150esimo compleanno. Subentra la paura, lo sconforto. La fiducia – che solo il Parlamento ha ancora la forza di accordare ad amministrazioni fallimentari – è sotto zero. Personalmente vorrei tutt’altro. Vorrei uno statista che, come Franklin D. Roosevelt, all’alba della crisi più profonda di sempre, avesse il coraggio di dire al suo Paese che “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Vorrei sentire risuonare ancora con forza le parole che il neoeletto papa Wojtyla gridò nel 1978, in anni di acuta crisi globale: “Non abbiate paura!”. Mi mancano gli occhi limpidi di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer e le loro mani tese l’uno verso l’altro, con quel senso di collaborazione per il bene comune che quel gesto significava. Ora come allora c’è la volontà forte di fare qualcosa, di uscire dal baratro e riprendersi in mano il proprio futuro. Davanti agli occhi c’è la forza del popolo egiziano che in questi giorni cerca di riconquistare quel che resta della propria democrazia. Ma c’è anche la preoccupazione di non farcela, di essere impotenti dinanzi all’inesorabile precipitare degli eventi. La paura e la speranza. Così Giulio Tremonti ha intitolato una sua recente pubblicazione sulla crisi economica in Europa. È il titolo che potremmo dare anche a questo primo scorcio dell’alba del Terzo Millennio. Un’alba che per molti versi assomiglia piuttosto ad un tramonto. Perché è facile lasciarsi andare al pessimismo e alla nostalgia. Come se tutto ciò che di buono poteva esserci ci fosse già stato. Difficile non pensarla così in una società che pare ridotta ad identificarsi con Arcore e le sue feste e richiama alla mente, senza tutto il fascino di un grande film d’autore, la scena madre dell’ultimo capolavoro di Kubrick, “Eyes wide shut”: una colossale grottesca festa mascherata che si svolge secondo una misteriosa liturgia in cui ad essere in gioco sono i corpi e le anime di ciascuno. Davanti a tutto questo, la tanto denigrata Prima Repubblica sembra solo un bel sogno, quello immortalato nelle spensierate atmosfere di tanto cinema italiano, da Risi a Monicelli. Ma il passatismo non è certo l’antidoto. Guardare al passato può essere una cosa buona solo se incoraggia ad andare incontro al futuro. Mi viene in mente la prima frase in assoluto che ho sentito pronunciare ad una lezione di filosofia, tra i banchi di scuola: “Siamo dei nani sulle spalle dei giganti”. Non è chiaro chi l’abbia detta per primo. Ma poco importa, quel che conta è il suo significato più autentico che personalmente interpreto così: il nostro essere figli di una gloriosa tradizione politica, culturale e sociale che è quella italiana, ma anche europea ed occidentale in genere, non tollera che ci si ripieghi all’indietro. Stare sulle spalle dei giganti serve a guardare più in là, a vedere un orizzonte che altrimenti ci sarebbe rimasto sconosciuto. E, se saremo stati capaci di rimanere saldi sulle spalle dei nostri predecessori, anche coloro che verranno dopo di noi potranno salire sulle nostre per vedere ancora oltre. Dipende da noi.