di Marco Chiappetta
TRAMA: Anni ’30 – Il duca di York Albert “Bertie” Windsor (Colin Firth), figlio del re Giorgio V (Michael Gambon), per sconfiggere la balbuzie che non gli permette di parlare in pubblico e quindi di fare discorsi come la sua carica impone, su insistenza della moglie Elizabeth (Helena Bonham Carter), si rivolge al logopedista Lionel Logue (Geoffrey Rush), che con metodi anticonvenzionali e bizzarri cercherà di correggere il suo difetto. Diventato re col nome di Giorgio VI a seguito della morte del padre e dell’abdicazione del fratello David (Guy Pearce), a sua volta Edoardo VIII, con l’aiuto di Logue dovrà affrontare la sfida più difficile: la dichiarazione di guerra, via radio, alla Germania di Hitler.
GIUDIZIO: Diretto con grande estro da Tom Hooper, al suo terzo film, “Il discorso del re” è un’opera straordinaria, di singolare bellezza, un trionfo cinematografico costruito con perfezione dettagliata e una grazia che non tutti i film del recente cinema inglese – e non solo – possiedono. Analizzabile sotto vari registri – storico, politico, psicologico, sentimentale –, attraversato da tanta ironia e allo stesso tempo emotivamente irresistibile, è un capolavoro senza sbavature né cadute, esteticamente riuscitissimo e ricco di temi, trattati tutti con gran profondità: il rapporto interclasse tra il re e un piccolo-borghese, che diventa amicizia vera; l’umanità e la fragilità del re (non solo l’insicurezza di Giorgio VI, ma anche la passione di Edoardo VIII, che lascia il trono per sposare una donna divorziata), con uno sguardo sincero e originale, lucido e antropologico sull’ambiente regale; lo studio della complessa psicologia umana e della parola, della voce, che qui acquistano davvero il potere di cambiare il mondo. L’aspra, dura lotta per conquistare una voce sicura e decisa è, fuor di metafora, una guerra contro se stessi, per il dominio di se stessi, un viaggio nella coscienza (Logue scava nei traumi del re) e una ribellione alla forma (il re canta, recita Shakespeare, dice parolacce, si rotola sul pavimento), alle insicurezze, alla paura di vivere.
Scritto benissimo, è soprattutto un film di attori, girato com’è in interni statici e oppressivi, da teatro, una sorta di rilettura della lezione di Arthur Penn in “Anna dei miracoli”, a cui è per molti versi affine (nel film del ’62 Anne Bancroft aiutava una bambina sordocieca a comunicare con il tatto: un’altra drammatica battaglia per la vita, oltre le avversità e gli handicap).
E qui sono gli attori che dominano: senza ridimensionare i bravissimi comprimari, Colin Firth (già premiato col Golden Globe) e Geoffrey Rush, diversissimi come interpreti e come personaggi, offrono un saggio di arte pura, commuovono con un solo sguardo, spiegano cos’è il mestiere di attore, lasciano un segno indelebile nella memoria e nel cuore.
La musica di Alexandre Desplat fa il resto: è l’emozione pura, che il regista Tom Hooper sa catturare con raffinatezza, dolcezza, maniacale e impeccabile lavoro tout court, tra primi e primissimi piani, pedinamenti, un magistrale uso dei controcampi, della parola, degli spazi. Una regia classica, semplice, sincera, attenta, spesso virtuosa; e tanti altri pregi, come la ricercatezza dei costumi (Jenny Beavan) e delle scenografie (Eve Stewart), o la fotografia meravigliosa di Danny Cohen, fanno di questo film un vero gioiello, per cui lodi e applausi non saranno mai abbastanza sufficienti.
Candidato a ben 12 Oscar (tra cui le ipoteche sugli attori Firth, Rush e Bonham Carter), promette di essere il film dell’anno; e, nel caso raro in cui la notte del 27 febbraio restasse a mani vuote, lo scandalo dell’anno. Vedere – e commuoversi – per credere.
VOTO: 4/5