di Brando Improta
Il mattino dopo, Vito non era più nel suo letto: al posto suo trovammo solo una breve lettera adagiata sul cuscino. Spiegava che aveva deciso di andare via insieme a Stine, la ragazza tedesca che aveva conosciuto solo il giorno prima, ci raccontava di come aveva capito che il suo sogno era sempre stato quello di prendere e cominciare a girare senza meta, vagando di paese in paese a seconda di quello che la sua testa gli suggeriva in quel momento; e aveva trovato anche la compagna ideale con la quale condividere questa scelta.
Conclusa la lettura del messaggio (che terminava col classico “cazzo in culo”), fummo tutti d’accordo nel pensare che, in fondo, aveva fatto una scelta apprezzabile e per nulla discutibile.
Ma tutti questi episodi furono nulla in confronto a quello che accadde dopo: stavo esplorando un mercato in cerca di souvenir insieme a Simone, quando la mia attenzione fu richiamata da un oggetto particolarmente colorato che somigliava molto ad un vaso, completato però da un piccolo imbuto che permetteva di suonarlo a fiato come un qualsiasi flauto. Era l’unico esemplare disponibile di quello strumento particolare e così mi avventai sperando che nessun altro lo avesse notato; avevo appena poggiato una mano sul flauvaso (lo chiamerò così non sapendo come si chiamasse realmente) quando sentii una voce che mi sembrò familiare: “Mi scusi ma lo avevo visto prima io”. Mi girai pronto a protestare e rimasi particolarmente colpito nel vedere la persona che avevo di fronte a me: era Eugenio.
Non ci vedevamo da ben sette mesi ed era stato relativamente facile evitare di incontrarci tutte le volte che tornava a Napoli per incontrare la famiglia. Ora, invece, era stato impossibile evitarci a Caracas, l’ultimo dei posti dove mi aspettavo di incontrarlo.
“Cosa fai qui ?” mi chiese Eugenio modulando il tono di voce in maniera da farlo sembrare seccato
“Sono in vacanza, anche io come tutti i comuni mortali festeggio il Capodanno” fu la mia risposta nella quale decisi di scegliere un tono ironico.
“Ci sono anche gli altri!” si intromise Simone nel discorso cercando di tagliare corto, ma né io né Eugenio gli prestammo molta attenzione.
“Tu cosa fai qui ?” chiesi questa volta io.
“Non credo siano affari tuoi, anzi farò finta di non averti incontrato e me ne torno in albergo”. E detto ciò Eugenio si girò incamminandosi nella direzione opposta alla mia.
Decisi di seguirlo, lui camminava a passo sostenuto ed io gli camminavo affianco senza dire una parola, Simone ci seguiva arrancando sotto vari pacchi di ammenicoli e souvenir che avevamo comprato.
“Mi stai seguendo?” chiese sempre seccatamente Eugenio, dopo cinque minuti di tragitto comune.
“No stiamo solo tornando al nostro albergo” risposi. In realtà lo stavo seguendo, ma era anche vero che il nostro albergo era proprio in quella direzione.
Dopo venti minuti che camminavamo (con Simone sempre più affaticato e sempre più arretrato rispetto a noi), scoprimmo di alloggiare nello stesso albergo: Eugenio si era infatti fermato davanti all’ingresso per vedere se io proseguivo oppure se rimanevo lì fermo insieme a lui, all’inizio pensò che volevo estorcergli un dialogo, solo in un secondo momento (e con molta irritazione) capì che dormivamo nel medesimo posto.
“Per fortuna l’albergo è abbastanza grande per evitare di incontrarci nuovamente” fu l’unica frase che mi disse prima di entrare dentro.
Mentre Simone ansimando mi domandava a ripetizione “Mi dai almeno una mano a portare tutto sopra?”, io pensavo a come mi sentivo dopo aver rincontrato dopo tanto tempo il mio migliore amico dei tempi andati. In superficie potrei dire che ero completamente indifferente alla cosa, sapendo che tanto lui non avrebbe avuto nessuna intenzione di parlarmi o almeno di sembrare educato nei miei confronti salutandomi come con qualsivoglia conoscente; ma più profondamente invece sentivo che ero contento, contento perché sapevo che io avrei fatto tutto tranne che lasciarlo in pace.