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Il giorno del Leviatano

di Gianmarco Botti

Siamo alla fine di un’epoca, non c’è dubbio. Lo vanno ripetendo politici e commentatori di (quasi) tutti gli orientamenti. Negli ultimi mesi è stata scritta una pagina della storia italiana che ricorda molto da vicino quelle del Satyricon petroniano, in cui la rappresentazione di luculliane cene a base di libidine e mollezze è la cifra della decadenza inesorabile di un impero, quello romano, che si avviava ormai al suo tramonto. Il tramonto di un impero, la fine di un regno. E speriamo che nessuno voglia esclamare davvero “Dopo di me il diluvio!”, come fece quel Luigi XV di Francia, il quale, dopo essersi meritato nei primi anni di reggenza l’appellativo di “Beneamato”, per via dell’incapacità decisionale e della soverchiante presenza delle sue amanti, cadde in una tale impopolarità che alla sua morte esplosero i festeggiamenti del popolo parigino, che nel frattempo lo aveva ribattezzato il “Mal-amato”. I segnali ci sono tutti. A partire da un mondo femminile che non ci sta più e si mobilita in riunioni oceaniche che ricordano gli anni ruggenti del femminismo italiano, ma li superano per il valore simbolico di un movimento trasversale, non ideologico, che si propone come unico scopo la difesa della “dignità della donna”. Attiviste storiche e giovani studentesse, sindacaliste e religiose, esponenti politiche di destra e di sinistra. Tutto questo mentre dall’altra piazza, per la precisione un teatro, in mezzo a svolazzanti capi di biancheria intima, sono volate grida contro “l’inquisizione spagnola”, la “crociata puritana” dei magistrati e dei moralisti del nostro tempo. Poco importa se simili denunce provengano da chi di crociate, giuste o sbagliate che fossero, ne ha fatte tante. Sono le contraddizioni di un’epoca, che già fanno intravedere l’orizzonte di quella successiva. E così “moralista” e “puritano” diventano accuse infamanti, si dimentica che, al di là degli eccessi dell’intransigenza calvinista, il puritanesimo ha rappresentato un’aspirazione al rinnovamento e alla riforma in senso morale di quelle realtà, civili ed ecclesiastiche, che erano cadute in uno stato di corruzione e degrado. E siccome la nostra realtà, la “realtà Italia”, ha ora un tessuto sociale e morale più che mai sfilacciato, ben venga un neo-puritanesimo che possa portare una simile riforma.
Ci sono insulti peggiori che essere definito un moralista. Lo sanno bene gli Stati Uniti d’America, che dell’Occidente sviluppato rappresentano, oltre che il capofila economico, una fonte di sicura ispirazione morale. Un Paese fondato da puritani, i celebri “Padri Pellegrini”, e che puritano è rimasto, piaccia o non piaccia, nel giudicare coloro che ne vogliono essere i rappresentanti. Il caso Clinton nonché, da ultimo, quello del parlamentare dimessosi per aver inviato una foto osé ad un’amica in chat, ne sono una prova evidente. Qualcosa che da noi non passa e molti si interrogano sul perché. Qualcuno risponde, in maniera un po’ facilona a mio avviso, che la distanza fra gli Usa e l’Italia è quella che intercorre fra il rigorismo protestante e il lassismo della nostra cultura cattolica. Qualcun altro, come la filosofa Roberta de Monticelli, con un titolo che qualifica a perfezione la condizione presente, “La questione morale”, si propone di analizzare in maniera più puntuale le origini e la genesi di un fenomeno che si impone ormai alla riflessione di chiunque voglia pensare.
Per fare un po’ di chiarezza credo ci possa venire in aiuto un grande pensatore come Thomas Hobbes. La sua idea di uno stato fondato sulla concessione, da parte dei cittadini spinti dall’impulso primigenio della paura, di tutti i loro diritti ad un’entità che li sovrasta, il mitico “Leviatano”, ha rappresentato per molti l’immagine dei regimi totalitari di ogni tempo. Credo possa, invece, qualificare molto bene anche i rischi insiti in sistemi democratici come il nostro. La paura, vera protagonista di quel momento di transizione che è lo spartiacque fra un secolo e l’altro, ha un ruolo determinante anche nell’orientare i consensi politici. Vogliamo qualcuno che ci dia sicurezza, con la sua forza da combattente degna del “super-uomo” nietzschiano. Nel momento in cui lo troviamo, gli affidiamo in toto i nostri diritti e le nostre speranze. Costui, come il mostro biblico di cui parla Hobbes, si trova dunque in una posizione al di sopra del diritto e della legge. Crede di potere tutto. È il popolo che glielo ha permesso. Richiamarsi continuamente al voto popolare diviene quindi un via privilegiata per legittimare la superiorità del potere rispetto alla stessa legge. La Costituzione repubblicana dice ben altro, ma questo passa in secondo piano. Troppo lontano sembra quel rispetto totale del diritto di chi come Socrate, pur sapendo nella propria coscienza di essere nel giusto, si sottomette alla legge rimettendosi al giudizio nel processo. Giudizio, processo. Comunque stiano le cose e in qualunque modo questa storia vada a finire, sento che il 6 aprile sarà il giorno del giudizio. Il giorno del Leviatano.