di Marco Chiappetta
TRAMA: Nina Sayers (Natalie Portman), ballerina ambiziosa ma fragile, ossessionata dalla perfezione e oppressa da una madre ultraprotettiva (Barbara Hershey), dopo che il regista-coreografo della compagnia, Thomas Leroy (Vincent Cassel), ha licenziato la sua prima ballerina Beth (Winona Ryder), ottiene il doppio ruolo protagonista nel balletto Il lago dei cigni di Tchaikovsky: Odette, il cigno bianco, e la sua malefica e invidiosa rivale, il cigno nero. Lo sforzo psicofisico, l’ambizione e il narcisismo portano Nina a un’immedesimazione estrema, folle e allucinante, finendo per proiettare il suo alter ego oscuro e la figura del cigno nero nella sfacciata e procace collega Lily (Mila Kunis).
GIUDIZIO: Il quinto film di Darren Aronofsky, così diverso dai suoi lavori precedenti, così diverso da qualsiasi altro film della storia del cinema, è un’opera di rottura, estrema per stile e contenuto, un’esperienza cinematografica del tutto nuova, spiazzante, scandalosa: trasporta lo spettatore fin dentro l’anima umana, in un viaggio senza ritorno nella degenerazione, nella pazzia, nella corruzione morale. Un film durissimo, doloroso, claustrofobico, per stomaci forti, troppo in tutto, che fa dell’eccesso una sua peculiare virtù, aggiorna il concetto di capolavoro e consacra nuovamente il suo autore come il regista più innovativo e geniale del nuovo millennio. Aronofsky mette in scena in un teatrino dell’orrore tutto quello che la morale umana nasconde e reprime, dice quello che nessuno vorrebbe mai pensare, quello che il cinema non ha mai avuto il coraggio e la forza di mostrare. Come già nei suoi precedenti capolavori “Requiem For A Dream” e “The Wrestler”, pedina e spia i suoi personaggi anche nei momenti di peggior bassezza, e costringe lo spettatore a guardare quello che non vorrebbe, incitandolo a un voyeurismo esasperato verso le più cruente assurdità della vita, con un realismo spietato, surreale, che sfocia spesso nell’espressionismo più macabro. Qui Aronofsky realizza un trip onirico, allucinante, sconvolgente, disturbante: allo spettacolo vivido e iperrealistico della follia umana, tra deliri, allucinazioni, mostri, fantasie saffiche, ferite e unghie incarnite, vi si assiste inerti, sussultanti, con gli occhi sbarrati, il cuore in gola, la speranza di uscire presto da questo incubo e al contempo il piacere masochistico che questo incubo duri per sempre. Lo spettatore non si può distrarre, non può uscire da questo inferno: deve farsi contaminare dalla follia, perdere l’innocenza e il controllo di sé, fare i conti con le proprie perversioni e i propri complessi più reconditi.
Aronofsky spinge lo spettatore sull’orlo della follia, a sporcarsi anima e coscienza, a interrogarsi sulle cose ignote e indicibili della mente umana: ribalta tutti i concetti di morale e razionalità, scandaglia l’abisso dell’anima, innestandovi un demone malato che inquieta, snerva, intimidisce. Insomma, porta alle estreme conseguenze le possibilità morali e catartiche del cinema, come se centoquindici anni di immagini in movimento avessero dato alla contorta psicologia umana solo un carattere superficiale, fittizio, appunto cinematografico. Per questo “Il cigno nero” è un’opera singolare, straordinaria, a suo modo rivoluzionaria, non meno di “Avatar” o “Inception”, con la differenza che è un film d’autore, indipendente, costato appena 13 milioni di dollari, che al 3D e ai virtuosismi della grafica digitale oppone appena un uso minimo, esemplare, degli effetti speciali, funzionali a deformare la realtà in un incubo perenne. Lo spettacolo è tutto interiore, tutto cerebrale.
Geniale, imprevedibile, eclettico e completamente pazzo, il film affronta con cattiveria, cinismo e pura violenza estetica il tema dell’ambizione e del successo, della gloria e del narcisismo, le basi cioè della società americana, mostrando sempre due facce della stessa medaglia: yin e yang, luce e tenebra, il male che contamina il bene, la gentilezza che diviene perfidia, la timidezza che esplode in egocentrismo, l’amicizia che si trasforma in rivalità, la morale casta e le più malate trasgressioni sessuali, la metamorfosi del cigno bianco in cigno nero. La vita che imita l’arte. L’arte per l’arte, che ha un solo obbiettivo – la perfezione assoluta – e nessuna morale, nessuna ragione.
Una sorta di “Eva contro Eva”, non più nel mondo teatrale ma in quello non meno competitivo del balletto, in chiave pulp e psycho-horror, che rivela le influenze su Aronofsky dei registi più perversi (Lynch, Cronenberg, Haneke, Polanski, Kubrick) e degli scrittori del subconscio (Kafka, Dostoevskij, Freud), e al contempo la sua originale estraneità, nonché la sua dichiarata e indubitabile passione per gli acidi (ne è prova la memorabile sequenza della discoteca, in cui Nina e Lily ballano al ritmo dell’ecstasy).
C’è una continua tensione erotica, violenta, tutta psicologica, tra i personaggi, quasi come se da un momento all’altro dovesse scoppiare la passione, l’incesto, il delitto. Non c’è un momento di quiete e di pace, ma solo conflitti e ossessioni, aberranti visioni e istinti animali: l’incubo diventa l’unica realtà possibile, dove tutti sono demoni, corrotti, malati, pervertiti. I ruoli dello spettacolo diventano maschere nude nella vita reale: nello sforzo fisico e artistico, Nina ricrea nella sua realtà l’universo della storia che deve recitare. Lei, fragile, debole, infelice, pura e casta, il cigno bianco; la sua (psicosomatica) rivale (una Mila Kunis maledetta e dirompente per sex appeal), il cigno nero che le insidia l’amato principe, il regista-coreografo-capo-demiurgo che può dominare tutto con la sua virilità (un grandissimo Vincent Cassel).
Ma il cigno nero è Nina stessa: il suo nemico è la sua identità fragile, repressa, piena di dubbi e complessi, infantilismi e moralismi, frutto di un rapporto ossessivo con una madre castratrice, madre terribile e demoniaca, che a sua volta vede nella figlia il suo alter ego, la ballerina e la ragazza che non è più. Il nemico è l’io, anzi il super-io: il subconscio prende il sopravvento in un delirio di egocentrismo, in cui i ritratti alle pareti si animano, gli specchi e i vetri della metro mentono mostrando altri riflessi, la sua rivale Lily diventa Nina stessa.
Raramente s’è visto usare la musica in modo così geniale: la gloriosa musica di Tchaikovsky (arrangiata e riadattata da Clint Mansell a seconda delle esigenze narrative) diventa un contralto sublime e terribile all’oscenità depravata del racconto filmico, lasciando una volta di più basiti e sconvolti.
Meraviglia e orrore, poesia e violenza, dolcezza e decadenza, si mescolano splendidamente in questo film, schizofrenico come la sua protagonista, la strepitosa Natalie Portman (premiata col Golden Globe e candidata all’Oscar), che, in un’interpretazione estrema, sofferta e inimmaginabile, sfrutta il suo corpo come un campo di battaglia, con una tale intensità, una tale grazia, una tale perfezione da lasciare ora incantati – come nel sogno iniziale, o nell’esaltante finale con la prima del balletto –, ora disturbati – negli atti di masochismo e autoerotismo. Malinconica, disperata, complessa, introspettiva: è una recitazione da metodo Stanislavskij, immedesimazione pura, fino alla pazzia. Per questo il film diventa un’opera meta-artistica, in cui attore e personaggio (Natalie Portman e Nina) e ballerina e personaggio (Nina, il cigno bianco e il cigno nero), coincidono fino alla simbiosi, alla perdita di controllo e di identità, fino a soffrire e morire per l’arte stessa: perché qui, neanche fosse una commedia di Pirandello, sogno, arte e immaginazione si fondono con la realtà, senza che si possano distinguere. In questa scatola cinese, lo spettatore-voyeur si immedesima a sua volta, e a sua volta impazzisce: si esce dal cinema turbati nel profondo, inevitabilmente corrotti e mutati, come se Aronofsky ci avesse fatto una malsana inception.
VOTO: 5/5