di Ilaria Giugni
Sabato scorso, moriva all’ospedale Civico di Palermo Noureddine Adnane, 27enne, venditore ambulante.
Da dieci anni viveva nel nostro paese, a Palermo, svolgendo la sua attività munito non solo di permesso di soggiorno, ma anche di licenza per la vendita dei suoi giocattoli.
Eppure, nell’ultimo periodo, la sua attività autorizzata era continuamente interrotta dall’azione di una squadra di vigili urbani, guidata da un agente soprannominata dagli ambulanti di Palermo “Bruce Lee”. Motivo del nomignolo i suoi modi virulenti.
D’altronde la squadra ha già all’attivo una denuncia per percosse, sporta da un ambulante ventiduenne, in regola.
Noureddine era perseguitato dai controlli per una nuova normativa comunale: nella città di Palermo gli ambulanti non possono sostare per più di un’ora nello stesso luogo.
L’undici febbraio contava il quinto verbale in dieci giorni. Noureddine non ne poteva più: trattenuto senza motivo, si cosparge di benzina e si dà fuoco.
Il suo ultimo pensiero va a sua moglie che, in Marocco, aveva appena ottenuto il visto per raggiungerlo in Italia.
La scena tragica dura dieci minuti, ma né i vigili, né i passanti, intervengono per fermarlo. L’ambulante viene trasportato all’ospedale Civile, dove, sabato, perde la vita.
La morte di Noureddine scuote nel profondo, il pensiero cade sulla nostra umanità: ci si chiede se siamo ancora in grado di provare compassione per un nostro simile. L’indifferenza dimostrata dai passanti, dagli stessi vigili urbani, forti del loro ruolo e contemporaneamente impermeabili all’ingiustizia, è qualcosa di anomalo. Questo caso lascia molti dubbi, molti perché.
Se però rimane una certezza, è che in un paese dove si muore perché tartassati sul lavoro non è un paese normale. Un paese dove gli uomini delle istituzioni non tutelano i più deboli, ma li affliggono, li umiliano in virtù del proprio piccolo potere, non è un paese civile.