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Il coraggio di tradire

di Gianmarco Botti

Amori e segreti. Amicizie e tradimenti. No, non è il titolo ad effetto di una telenovela fitta di intrighi in stile “Beautiful”. È piuttosto il copione della vita politica del nostro Paese negli ultimi tempi. Vale la pena di sorvolare sulla prima diade di cui fin troppo si è scritto e discusso e ancora se ne scriverà e discuterà. La seconda è non meno interessante e attuale. Attualissima, anzi, se si considerano le roventi polemiche delle ultime ore sull’atteggiamento del Governo italiano e del suo capo nei confronti di Gheddafi in piena crisi libica: un atteggiamento, si accusa, influenzato da un rapporto di amicizia così stretto fra i due leader da consigliare al Cavaliere di evitare di chiamare il Colonnello per paura di disturbarlo. Sono le relazioni internazionali, che forse sarebbe meglio chiamare “interpersonali” nella misura in cui il legame tra due paesi “amici” coincide praticamente con il sodalizio umano fra i loro governanti. Basta guardare l’accoglienza da vero re che il nostro premier ha riservato all’amico libico durante la sua visita in Italia l’estate scorsa. Nel più ristretto ma non per questo meno controverso mondo della politica nazionale la categoria che va per la maggiore sembra invece decisamente quella del tradimento. È da mesi che a Fini e i suoi che sostengono di essere stati buttati fuori dal Pdl fa eco un coro di voci berlusconiane che li accusano di alto tradimento, lesa maestà, trasformismo. Qualche settimana fa il Presidente del Consiglio scriveva a Francesco Storace, segretario de La Destra, pronto ad entrare in maggioranza, che era necessario unirsi per “battere definitivamente chi ha rinnegato e tradito la storia e la tradizione migliore della destra italiana, fino a confondersi con la peggiore sinistra che la storia d’Italia ricordi”. Lasciando da parte il dibattito su quali siano la destra e la sinistra migliori o peggiori, va sottolineata l’enfasi che in queste righe assumono termini come “rinnegato” e “tradito”. Esprimono, anche sul piano degli affari interni, la convinzione cui si è accennato prima: le alleanze elettorali si stipulano fra amici e quando queste si rompono la fiducia è tradita, l’amicizia rinnegata. Fermo restando che, come ha di recente risposto il cardinale Bagnasco a chi gli chiedeva se la fedeltà sia un valore anche in politica, “la fedeltà è un valore a tutti i livelli” purchè non si tramuti in servilismo, va detto che essa non può neppure venire strumentalizzata. Se è vero che, come scrive Antonio Polito sul Corriere, “la categoria del tradimento si addice alle corti rinascimentali più che alla politica moderna”, nondimeno la politica moderna così com’è, non solo quella italiana, nasce da alcuni clamorosi “tradimenti” storici. Come considerare diversamente l’emancipazione della sinistra democratica dalla tradizione marxista e quella della destra liberale dal suo passato fascista e totalitario? Svolte come quella della Bolognina da una parte e quella di Fiuggi dall’altra, non me ne vogliano i nostalgici di ogni fazione, hanno permesso alla dialettica politica di liberarsi da schemi sorpassati per entrare nel nuovo millennio. Il coraggio di tradire come base di ogni progresso, non solo quello politico. La stessa storia della filosofia sarebbe impensabile se le “auctoritates” di tutti i tempi fossero state così solide da sopprimere sul nascere ogni possibile sviluppo. Una storia avvincente, fatta di tradimenti continui, quella della filosofia. A partire da Aristotele, che si è meritato l’appellativo solo apparentemente poco lusinghiero di “discepolo infedele” nei confronti di Platone verso cui nutrì una grande devozione che non gli impedì però di affermare: “Platone è mio amico, ma la verità è ancora più amica mia”. Lui, che aveva in così gran conto il sentimento dell’amicizia da definirla “una singola anima che abita in due corpi”, capì che il legame più forte doveva essere quello con la verità, intesa come ricerca personale che non si fa immobilizzare in forme codificate, neppure nella dialettica del rapporto maestro-discepolo. Quel maestro e quel discepolo che troviamo raffigurati al centro del capolavoro di Raffaello “La scuola di Atene”: Platone con il dito che indica il cielo, l’Iperuranio, il mondo delle Idee da cui ha origine ogni cosa; Aristotele con il palmo della mano rivolto verso terra, quella natura terrena che egli indagò in tutte le sfaccettature attraverso i suoi componenti, le piante, gli animali, l’uomo. Un rovesciamento totale di prospettiva, un tradimento, se vogliamo. Fisiologico, necessario. E così, quando il giovane Fichte porterà alle estreme conseguenze le acquisizioni del maestro, convinto di muoversi ancora nel suo stesso orizzonte di pensiero, il vecchio Immanuel Kant comprenderà che in realtà si era già aperta una nuova fase della storia delle idee. Il segno che, anche senza saperlo, per portare qualcosa di nuovo nel mondo è necessario in certo qual modo tradire l’eredità che si è ricevuta per andare oltre. L’importante è, e questo lo si può ben vedere nella coerenza estrema che caratterizza l’esperienza umana e spirituale di Socrate, essere sempre fedeli a se stessi. Per far questo, talvolta, bisogna avere anche il coraggio di tradire.