di Renata Rallo
“A volte si viene catapultati nella vita di qualcuno quando va tirato su di morale e rassicurato e si scopre che chissà perché tocca a te questo compito. Non sappiamo la ragione ma il tuo caso è compito mio”.
Queste le parole di un rassicurante John Hannah all’impaurita Gwyneth Paltrow, nel famoso film “Sliding doors”.
La protagonista appare insicura, di un’insicurezza che deriva dalla consapevolezza della necessità. La necessità di non essere da soli.
Spesso ci rendiamo conto di avere bisogno degli altri quando le cose non vanno bene o quando avremmo bisogno di una spalla su cui piangere. E’ un dato, una caratteristica della natura umana (e non solo) l’aggregarsi in gruppi per sopravvivere o provvedere a necessità comuni.
Certo, non stiamo più parlando dell’ambiente puramente sociale e dell’unione sostanzialmente politica della ‘polis’ greca ma di qualcosa di più ristretto e al contempo di più profondo. Il cittadino greco del V secolo ben conosceva il suo ruolo nella città, l’uomo era “animale politico” prima ancora che individuo, la sua identità era riconosciuta esclusivamente all’interno della ‘polis’, nel confronto con gli altri, nelle discussioni di carattere politico e strategico.
E’ evidente la sostanziale differenza con l’uomo moderno. Nei secoli successivi all’età classica fino ad arrivare a noi, il campo della condivisione sociale ha ceduto il posto ad una sempre maggiore introspezione: l’uomo esiste quale individualità e in se stesso. La sfera politica viene via via abbandonata dagli uomini “comuni” e lasciata a “chi di dovere”, mentre l’individuo inizia a chiudersi agli altri vivendo l’io interiore.
Ma l’uomo moderno dimentica che l’ “io” è qualcosa di molto più complesso e complicato della semplice conoscenza di se stessi attraverso superficiali analisi o autoanalisi.
Non esiste un “io” senza un “tu”, senza un “noi”.
Io sono perché sono in rapporto all’altro. Io sono perché l’ altro a sua volta è. Io sono perché, unito all’altro che è, insieme siamo.
L’uomo pare spesso dimentico di quanto abbia bisogno dell’altro, di quanto il confronto sia fondamentale per se stesso e per la sua crescita.
Spesso ci circondiamo di persone, di “amici”, senza creare con loro un vero rapporto, senza impegnarci in un legame che per complessità ed intensità non può che essere unico. Essere “l’altro” è la più grande responsabilità, avere “l’altro” è il più grande privilegio. Ed è questo che più spaventa l’essere umano. In tanti secoli di ripiegamento l’uomo ha immaginato di essere diventato immune ai fattori esterni, di poter vivere nel proprio mondo, rivolgendosi esclusivamente all’interno. Ma ecco che la vita sempre ci pone davanti ostacoli.
A chi non è mai capitato di aver bisogno di qualcuno in un momento di difficoltà? Di rendersi conto che non si può vivere fingendo legami o isolati dal mondo nel proprio io? E magari sarebbe bastata una “qualunque” persona con cui parlare. Ma nessuno è “qualunque”. Ognuno “è” nel momento in cui “è” per l’altro.
E allora che fare? Come fare in un mondo che di comune ha solo l’aria e lo spazio che occupiamo? L’uomo deve uscire da sé, ma, cosa più importante, deve scoprire il proprio “io” al prossimo.
Condividere due essenze in un legame, sostenere il peso di due esistenze, svelare doppi sogni e doppie paure.
Le persone hanno bisogno di stare vicine, hanno bisogno di prendersi cura e di fidarsi le une delle altre anche se questo può condurre a dolori e sofferenze.
A questo proposito mi sovviene il famoso “dilemma dei porcospini” del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer che di certo, pur non giungendo ad una reale conclusione in quanto il mondo e le relazioni sono di gran lunga più complesse, illustra magistralmente la specifica condizione dell’animo umano in cerca dell’unione con l’altro:
“Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.”
(Parerga e Paralipomena, II, cap. 30, par. 6)