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Dietro la maschera

di Gianmarco Botti

A Carnevale ogni scherzo vale. Anche quelli di pessimo gusto. Così deve pensarla il proprietario di quel negozio di costumi di Napoli che quest’anno si è procurato un bel po’ di notorietà grazie a un modello che non poteva non dare scandalo. Cappello da pescatore, gilet, perfino la fune pronta per diventare l’arma del delitto dell’anno: “zio Michele” (Misseri) è servito. Ma non è finita qui. Chi al cupo contadino di Avetrana preferisse qualcosa di più “allegro” verrà accontentato: sarà Ruby o Berlusconi, a seconda delle preferenze, per un successo assicurato a feste e festini. Assicurata era anche la polemica. Da una parte chi si scaglia contro un’iniziativa che sacrifica al fine commerciale e all’indole consumistica della festa il messaggio trasmesso a bambini e ragazzi, ai quali in qualche modo si finiscono per additare modelli obiettivamente non positivi. Dall’altra chi sdrammatizza facendo appello al proverbiale spirito della festa: a Carnevale tutto è consentito, in fondo si tratta pur sempre di scherzi. Ma siamo proprio sicuri che sia davvero così? Saremmo tranquilli in una società che tenesse per ferma la radicale distinzione fra il piano della realtà e quello della finzione. Eppure non è il nostro caso. E dirò di più: credo che una società simile non sia mai esistita e forse mai esisterà. Questo perché la finzione, intesa come arte creativa dell’uomo nelle sue varie declinazioni – letteraria, pittorica, drammatica, cinematografica – nasce dall’esigenza di gettare uno sguardo nuovo sulla realtà. Non certo dal maldestro tentativo di chiudere entrambi gli occhi davanti ad essa. Cosa che sarebbe ben difficile e del resto l’idea dell’arte come evasione ha definitivamente ceduto il passo ad una sua visione decisamente “impegnata” che si è fatta strada sempre più in tutti i campi. Un rapporto solido dunque, quello fra realtà e finzione, che risale alle origini della nostra cultura. A quella prima riflessione fondamentale sull’arte che è la “Poetica” di Aristotele. Lì il falso, il fittizio, tutto quel che è “artistico”, è indicato come ciò che di più autenticamente vero vi è al mondo in quanto incarna propriamente l’universale, il possibile. I personaggi della tragedia, forma prima dell’espressione artistica secondo il filosofo, sono veri perché non rappresentano se stessi ma piuttosto dei tipi umani generalissimi, nei quali lo spettatore può riconoscersi. È questo il segreto dell’arte per Aristotele, il punto di avvio di quel processo di immedesimazione che permette alla finzione di essere più vera del vero, fino a culminare nel momento della catarsi: è allora che il coinvolgimento pressoché totale di chi guarda nella vicenda rappresentata si traduce in un impatto psicologico così forte da trasformarlo nell’intimo. E neppure chi sta sul palcoscenico viene risparmiato. Lo dimostra il protagonista di una pellicola di George Cukor dal titolo evocativo “Doppia vita”, un affermato attore di teatro che si lascia trasportare dal proprio ruolo scenico fino ad esiti davvero tragici. Intreccio simile, con un pizzico di follia in più, per l’“Enrico IV” del nostro Pirandello, che nell’analisi del complesso e affascinante legame di realtà e finzione è indiscusso maestro. Un’analisi che, come si è visto, è già presente nel mondo antico e dalla quale prende le mosse anche la critica rivolta dai pensatori cristiani a quella che il prof. Leonardo Lugaresi chiama “società dello spettacolo”. Così scrive lo studioso sull’Osservatore Romano: “Quella degli spettacoli, infatti, si presentava agli occhi dei Padri come una realtà profondamente ambivalente, in cui il vero e il falso si confondevano, sino a mettere in crisi la stessa validità di tale opposizione. Basti pensare al fatto che l’attore, nell’atto di interpretare un personaggio, è vero proprio nel suo essere falso, in quanto è, e al tempo stesso non è, il personaggio che rappresenta”. È il “gioco” dell’attore, che il grande Giancarlo Giannini descrive come “un prestigiatore, uno che ama il gioco, non a caso recitare in francese si traduce con jouer e in inglese con to play”. Il problema, se vero e falso non sono poi così lontani, è che qui si gioca con la realtà. Lugaresi cita sant’Agostino, il quale pare replicare proprio ad Aristotele, che per primo aveva messo in luce l’influsso delle rappresentazioni sull’animo umano. Il santo filosofo denuncia il fatto che “agli spettatori piaccia soffrire contemplando sulla scena vicende dolorose e tragiche che dovrebbero suscitare misericordia se le incontrassero nella vita reale”. E se lo spiega con la convinzione che “una relazione veramente umana si realizza solo là dove c’è responsabilità”. È questa, la responsabilità, lo scarto incolmabile fra realtà e finzione, l’autentico confine fra i due mondi. D’altronde non è forse la responsabilità personale che viene meno quando ci si maschera? La diagnosi del sociologo Franco Ferrarotti è che “mascherarsi permette di essere socialmente presenti ma come persone non responsabili”. In latino “persona” significa appunto “maschera”, quella che indossavano gli antichi attori di tragedie e quelle che fanno ancora oggi la loro comparsa il giorno di Carnevale. Essere “persone responsabili” acquista dunque un significato tutto particolare. Vuol dire, in fin dei conti, che neppure a Carnevale ce la si può cavare facilmente con un “ogni scherzo vale”.