di Gianmarco Botti
“Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma”: queste le ultime parole famose di Pio IX, così come furono riportate nel settembre 1870 dal conte di San Martino, incaricato da Vittorio Emanuele di gestire le relazioni con la Santa Sede in vista della presa di Roma. Più azzeccata la previsione del conte sull’atteggiamento che il papa avrebbe tenuto nei confronti dell’azione italiana: “Esso non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo”. Ed in effetti, quando il 20 settembre le truppe italiane entrarono in città attraverso Porta Pia, un pontefice rafforzato nella sua autorità dalla recentissima proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, già in rotta con la cultura moderna condannata duramente dal Sillabo (ovvero l’“Elenco contenente i principali errori del nostro tempo”), non potè non chiudersi in un’intransigente opposizione. Comincia così il rapporto fra la Chiesa Cattolica Romana e il nascente stato italiano unitario: nel segno dell’incomprensione. E della contraddizione. E sì, perché l’autorità suprema della Cristianità che, al grido di “Non expedit” – “non giova” che i cattolici svolgano un ruolo, attivo o passivo, nella vita politica dell’Italia, come sancì una disposizione papale nel 1874 – delegittimò di fatto, rifiutandosi di riconoscerle, le costruende istituzioni unitarie, è la stessa che nei secoli precedenti aveva lavorato all’edificazione di un “senso comune” italiano.
Secondo lo storico Galli della Loggia, “il cattolicesimo, mentre ha rappresentato un ostacolo oggettivo di rilievo rispetto all’indipendenza e all’unità politica dell’Italia, viceversa dal punto di vista degli orientamenti morali, della sensibilità, delle abitudini della vita quotidiana, della vita spirituale e religiosa, insomma dal punto di vista antropologico-culturale, ha invece rappresentato un potente fattore di unità della penisola”. Nessuno può disconoscere il decisivo valore aggregante rappresentato dalla religione cristiana nell’Italia che ancora non era tale, pari soltanto a quello dell’eredità culturale greco-romana. Esempi illustri di cristiani impegnati nel costruire una coscienza nazionale, talvolta in contrasto con l’autorità papale, si trovano in tutte le epoche. Si pensi a Dante e al suo progetto di unficare la penisola attraverso la lingua ben prima che gli eventi risorgimentali avessero luogo. A Manzoni, cattolico liberale, senatore del Regno, che fu il primo a ritenere la perdita del potere temporale un fatto positivo per la Chiesa stessa, come avrebbe riconosciuto anche il papato con Paolo VI solo dopo il Concilio Vaticano II; egli che ancora, una volta fatta l’Italia, si preoccupò di “fare gli italiani” tracciando le linee della politica linguistica e scolastica per i decenni seguenti. Classici come la “Divina Commedia” e “I promessi sposi”, per il posto fondamentale che occupano ancora oggi nei programmi della scuola italiana, sono la prova di quanto solido sia stato il contributo offerto dalla cultura cattolica, di cui sono imbevuti, alla causa dell’unità nazionale. D’altronde i primi passi del Risorgimento sul terreno delle idee si ebbero nel solco del pensiero cattolico di matrice neoguelfa che ha i suoi alfieri in Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti. Quest’ultimo, nel pensare ad uno stato italiano unitario, ne vedeva il papa come “presidente naturale e perpetuo”, fonte di quel “primato morale e civile” che all’Italia spettava da sempre. Solo in un secondo tempo, con il prevalere delle componenti massoniche e anticlericali nel movimento risorgimentale, si verificò un distacco fra Cattolicesimo e ideali unitari. Quel distacco che si sarebbe materializzato drammaticamente al momento della presa di Roma. E non bastarono le garanzie, le “guarentigie” della celebre legge con cui il Regno d’Italia volle attuare il principio cavouriano di “libera Chiesa in libero Stato”, a calmare le acque. Una parziale sospensione del “Non expedit”, con la possibilità per i cattolici di votare i candidati liberali che si impegnavano a difendere i valori cristiani, si ebbe nelle elezioni del 1913, con il varo del “patto Gentiloni”. Ma per una presenza ufficiale dei cattolici nell’arena politica si dovrà attendere il 1919 e la nascita del Partito Popolare di don Luigi Sturzo. L’appello rivolto da Sturzo “a tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti”, era un invito a superare le contrapposizioni del passato per inaugurare una fase nuova. Ciononostante, quella che i libri di storia presentano come la conclusione definitiva della Questione romana fu la firma, nel 1929, dei Patti lateranensi con cui la Santa Sede regolamentava i propri rapporti con lo Stato italiano, rappresentato da Benito Mussolini. In lui alcuni videro “l’uomo della Provvidenza”, colui che, tendendo una mano alla Chiesa, le offriva la possibilità di uscire dalla sessantennale emarginazione politica. Tutto questo però aveva un prezzo. Un prezzo che il Partito Popolare di Sturzo, a forte impronta antifascista, pagò duramente. Tuttavia la soluzione concordataria permise alla Chiesa di mantenere in vita per tutto il Ventennio, accanto a quelle del regime, le proprie istituzioni educative, prima fra tutte l’Azione Cattolica. È da questa fucina di ideali e progetti politici che verrà fuori l’alternativa: quella classe dirigente che con De Gasperi porterà, dopo la guerra, l’Italia verso la democrazia. Democrazia cristiana si chiamerà il soggetto politico, nato dall’evoluzione del Partito Popolare, che governerà il Paese per oltre quarant’anni. Un partito laico, come dimostra il “gran rifiuto” che De Gasperi oppose all’invito di Pio XII ad allearsi con i neofascisti dell’Msi per le elezioni del 1952 al comune di Roma, ma che ha rappresentato per quasi mezzo secolo la casa comune dei cattolici italiani. Quando, sotto i colpi di Tangentopoli, questa casa è crollata, si è aperta una stagione nuova per l’impegno politico dei cattolici, che può essere considerata una vera e propria diaspora. Tramontata l’idea di un partito identitario, i singoli credenti si sono riversati in tutti gli schieramenti, assumendo posizioni anche molto distanti fra loro. Per richiamarli ad una convergenza trasversale sui valori cosiddetti “non negoziabili”, negli ultimi decenni, la Chiesa è intervenuta più volte in modo diretto, attraverso la Conferenza Episcopale e la persona del cardinal Ruini che ne è stato presidente dal 1991 al 2007, per sensibilizzare le coscienze (un esempio evidente è stato l’appello per l’astensione al referendum sulla fecondazione assistita). In un’epoca in cui molte volte si sono alzati i toni e acuite le contrapposizioni, qualcuno ha pensato di vedere nuovi “uomini della Provvidenza” in personaggi estremamente lontani, per storia personale e cultura politica, dalla tradizione cattolico-democratica. Quel che è certo è che, anche se a molti questo può aver dato fastidio, negli ultimi anni la Chiesa ha dimostrato un particolare interesse per le cose italiane ed è stata, assieme al Quirinale, uno dei pochi baluardi contro le tendenze secessioniste e disgregatrici. E le antiche fratture sono state ricomposte una volta per tutte. La vera, ideale conclusione della Questione romana può essere vista nella presenza del cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano, alla commemorazione dei caduti di Porta Pia il 20 settembre scorso. Mentre i tempi del “Non expedit” appaiono più che mai lontani, una rinnovata attenzione per il bene comune nel nostro Paese emerge chiaramente dai costanti appelli rivolti da Benedetto XVI affinchè sorga una nuova generazione di cattolici che prestino il loro impegno alla politica. Sembra che mai come adesso ce ne sia davvero bisogno.
“L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale”.
(Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse il 16 marzo di 33 anni fa)