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L’unità che divide, le differenze che uniscono

di Gianmarco Botti

Atteso, osteggiato, celebrato, denigrato. Alla fine il fatidico traguardo del 17 marzo è stato raggiunto e pure superato. Ma lo strascico di polemiche che ha accompagnato la corsa dell’Italia verso il suo 150esimo anniversario pesa ancora. Lo spettacolo a cui si è assistito in questi mesi ha visto protagonista non l’unità, bensì la divisione: settori del Governo gli uni contro gli altri, presidenti di provincia contro il Quirinale, bandiere tricolori contro vessilli borbonici, manifestazioni e contromanifestazioni. Un Paese diviso perfino sulla propria unità, il nostro. Che non sa se questa, raggiunta pure a prezzo di durissimi scontri ideologici e militari, sia un valore o un disvalore, qualcosa da difendere o da avversare. Ma non si rende giustizia alla portata del problema se si pensa di ridurlo alle annose diatribe nostrane ridicolmente avvitate intorno al dilemma “federalismo sì, federalismo no”. Allargando gli orizzonti, la questione viene a coinvolgere infatti i temi centrali della nostra epoca e non solo di questa: l’unità dell’Occidente, il pluralismo, la globalizzazione, la difesa delle diversità in un mondo che è sempre più unito nelle sue differenze e sempre più disgregato nella sua unità. L’uno e i molti. E qui il discorso da politico si fa filosofico. L’hanno affrontato i pensatori di ogni tempo, nel loro incessante chiedersi: che cosa viene prima, l’unità o la pluralità? E in modo diverso hanno risposto di volta in volta in contesti storici sempre mutati. Gli antichi Greci non hanno avuto dubbi nello schierarsi risolutamente in difesa dell’unità. Lo dimostra la ricerca di quei primi filosofi che hanno indagato l’“archè”, il principio unitario e originario del cosmo: l’acqua, l’aria, il fuoco, l’atomo e così via. Per Talete e i suoi discepoli dietro la molteplicità dei fenomeni naturali vi è pur sempre un elemento unico al quale essi vanno ricondotti. E se alcuni, come Empedocle che vide il principio di tutte le cose nella mescolanza dei quattro elementi della natura, furono chiamati “fisici pluralisti”, l’unità continuò a trovare i suoi alfieri per tutta l’età antica. Come quel Parmenide che teorizzò l’essere come uno e indiviso, affermando che esso “è ora insieme tutto quanto, uno, continuo”. Fino alla mistica esaltazione dell’Uno, da cui tutto proviene e a cui tutto deve tornare, liberandosi dalla molteplicità che caratterizza il reale: è questo il percorso spirituale e insieme cosmico tracciato da Plotino sulla scia di Platone che poneva, accanto al principio positivo dell’Unità, quello negativo della Diade come origine di ogni divisione. Un cammino ascetico e insieme razionale di ricongiungimento all’Uno proporrà anche il Medioevo cristiano, identificandone la meta nell’unione con quel Dio che raccoglie in sé tutte le cose. La svolta arriverà con la rivoluzione epocale del pensiero e delle scienze, quello “scoppio dell’Essere”, come lo ha definito Giuseppe Lissa interpretando il pensiero del filosofo napoletano Piovani, che è stata la modernità. Da questa cosmica deflagrazione dell’Essere unico e totale sono venuti fuori gli “esseri”, gli individui, nella loro pluralità e irriducibile diversità. Poco importa se alcuni, come Hegel con la sua filosofia dello spirito, proveranno ancora a ricondurre il tutto all’unità, nella forma di un unico spirito e di una storia universale che ne è il dispiegamento. La cifra del pensiero moderno è la frammentazione, la complessità, la singolarità. È questa che il danese Kierkegaard difenderà dal totalizzante sistema hegeliano, dando vita a quella nuova corrente, l’Esistenzialismo, che con Heidegger e Sartre solca il Novecento. Un nuovo “scoppio” sostituisce all’essere l’“esserci”, essere qui, gettati in questo mondo in cui l’uomo non si trova più come la parte di un tutto. La reazione a questa condizione esistenziale non è stata immune da contraddizioni e conseguenze radicali anche sul piano politico. Ne è testimonianza l’adesione di Heidegger al Nazionalsocialismo: rotti i legami con l’esterno, visto come “altro” da noi e a noi ostile, con la diversità minacciosa e disordinata che presenta, non viene meno l’aspirazione all’unità; un’unità che non si fonda più sulla comune appartenenza al genere umano o sui tradizionali vincoli religiosi, ma su un ideale totale e totalizzante: quello della razza. Il panorama di morte e distruzione lasciato dall’ideologia hitleriana ha gettato una luce sinistra sul problema dell’unità e della sua compatibilità con il pluralismo. Un problema che si pone in tutta la sua urgenza e gravità ai giorni nostri, in una società multiculturale che si trova a fare i conti con difficili processi di integrazione. Da un lato il fenomeno della globalizzazione economica e culturale, a cui si oppongono strenuamente tanto i cosiddetti “no-global” quanto i nazionalisti e “leghisti” di tutte le risme. Dall’altro i processi di contaminazione etnica spinti in avanti da quello “tsunami migratorio” che ovunque incontra una forte reazione xenofoba. Un’unità che si sente minacciata in un mondo plurale; una pluralità che rischia di essere schiacciata dalle pretese di un’unità che sa di omologazione e intolleranza. La soluzione non può essere né nell’uno né nell’altro estremo. Va ricercata, semmai, nella mediazione. Come quella proposta, in campo economico e politico, dal sociologo Zygmunt Bauman: è lui il padre del fortunato neologismo “glocal”, con il quale si vuole conciliare l’orizzonte ineliminabile della globalizzazione e dell’apertura al mondo con il rispetto di culture e tradizioni locali. Un principio che, se attuato sempre più anche nel concreto, spegnerebbe un fuoco che brucia da troppi anni. All’Italia, nel difficile percorso verso una più compiuta consapevolezza di sé che ha intrapreso 150 anni fa e che pare tutt’altro che concluso, l’aiuto può venire da oltre Oceano: è l’esempio luminoso degli Stati Uniti d’America. “Stati” appunto: ben cinquanta, ciascuno con le proprie peculiarità che lo rendono profondamente diverso dagli altri; ma tutti “uniti” da un forte spirito di solidarietà nazionale che ne ha fatto la prima potenza planetaria attraverso uno sviluppo morale e materiale che affonda le proprie radici nella guerra d’indipendenza contro gli Inglesi. D’altronde, anche coloro che hanno fatto l’Italia avevano idee profondamente diverse su cosa dovesse essere: tanto l’unificazione del 1861 quanto la rifondazione democratica del 1948 sono figlie di componenti culturalmente assai distanti fra loro, ma capaci di approdare ad una sintesi. Non dimentichiamolo mai.