di Gianmarco Botti
Se è vero che “apocalisse” in greco significa “rivelazione”, è chiaro che per vederne una non dovremo attendere il fatidico 2012, con buona pace degli antichi Maya e dei loro fantasiosi seguaci contemporanei. La storia umana, così come si è sviluppata finora, è costellata di momenti “apocalittici” e la recente tragedia giapponese è solo l’ultimo in ordine di tempo. Ma, purtroppo su questo possiamo giurarci, non sarà l’ultimo in assoluto. Non si tratta di vestire i panni di quei buontemponi catastrofisti che intasano la rete di presagi di sventura riesumando profezie millenarie. La questione è ben più seria e ha a che fare con un dato incontrovertibile che da sempre incombe, gettando un’ombra lugubre, sull’esistenza dell’uomo: per quanto possa progredire nella padronanza della tecnica e nell’acquisizione della scienza, egli resterà comunque sottomesso alla natura. Una realtà dura da accettare, per ognuno di noi come per l’intera comunità umana. Tanto più nella nostra epoca, caratterizzata da progressi scientifici inimmaginabili fino a poco fa, che fanno sperare in altri ancora più grandi. Le speranze, però, talvolta si infrangono, come è accaduto sulle coste dell’arcipelago nipponico. Davanti alla grande onda nera che travolge intere città e porta con sé innumerevoli vite umane, l’ottimismo cede il passo allo sgomento che deve a sua volta fare spazio alla riflessione. Ecco perché lo tsunami giapponese è “rivelazione”, come lo sono stati il terremoto dell’Aquila, l’uragano Katrina e il maremoto in Indonesia, solo per citare alcuni dei più nefasti eventi naturali dell’ultimo decennio: essi rivelano all’uomo del 2000, così sicuro di sé e della propria capacità di gestire e manipolare ogni cosa (dall’ecosistema in cui vive al suo stesso corredo genetico), la situazione di scacco nella quale versa ogni volta che si deve confrontare con la potenza della natura. L’umanità di ogni tempo questa rivelazione non l’ha voluta accogliere, preferendo, nel suo folle sogno d’onnipotenza, distogliere lo sguardo. “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”, recita il celebre versetto del Vangelo di Giovanni che Leopardi non a caso scelse come epigrafe di quella lucida e impietosa analisi della condizione umana che è “La ginestra”. Di tenebre infatti si nutre, nel tentativo di occultare la cruda verità, l’illusione che questo stato di cose possa venir superato e rovesciato. È l’illusione della magia, la ricerca di una chiave di volta che permetta di dominare la natura attraverso i suoi stessi elementi: un’esigenza intima dell’uomo, a partire dai primi sciamani fino all’interesse del pensiero medievale per l’occultismo, testimoniata ancora oggi da quella tendenza “fantasy” assai in voga nella letteratura e nel cinema. La stessa illusione si nasconde ai giorni nostri dietro la fiducia in un illimitato sfruttamento della natura, sempre più sacrificata al fine supremo del profitto: l’estinzione di specie animali e vegetali, la decimazione di boschi e foreste in tutto il mondo, il sempre più grave problema del buco dell’ozono sono solo i primi frutti di quella vera e propria lotta che abbiamo ingaggiato contro la natura. Da tale lotta, è scontato, usciremo sconfitti: il surriscaldamento globale, i cambiamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacci sono le prime avvisaglie della riscossa finale della natura che non tarderà ad arrivare. Allora fuggire sarà impossibile, come constata amaramente l’Islandese di una delle più celebri “Operette morali” del nostro Leopardi: figlio di una terra ostile e inospitale, se ne va pellegrino per il mondo, tentando di sfuggire alle mille insidie con cui la natura minaccia la sua sopravvivenza, ma nel farlo finisce per imbattersi proprio in lei, in “forma smisurata di donna” dal “volto mezzo tra bello e terribile”. Ella gli si rivela “nemica scoperta degli uomini”, a tal punto indifferente alla loro sorte che, se anche le capitasse di estinguere l’intera specie umana, neppure se ne accorgerebbe. Alla domanda, la più inquietante di sempre, postagli dalla Natura – “Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?” – l’Islandese replica con un’altra domanda, dando voce ai dubbi dell’umanità tutta: “T’ho io forse pregato di pormi in questo universo?”. In poche parole: se le cose stanno così, che senso ha la nostra esistenza in un mondo che ci è avverso, o ancora, “a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”. Il poeta non ha risposte da dare, ma può solo puntare il dito: “La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi”, scrive nello “Zibaldone”. Anche in quegli ultimi versi, scritti alle pendici del Vesuvio, “sterminator” della civiltà pompeiana, dove la robusta pianta della ginestra sembra alludere alla fiducia nella tenace resistenza dell’uomo, risuonano echi delle più profonde inquietudini di ognuno di noi: la consapevolezza di non trovarsi più al centro di un magico giardino di Eden, in cui tutto abbia il suo fine ultimo nell’uomo, o forse di non esserci mai stati. Resta soltanto quell’“oscuro granel di sabbia” che chiamiamo terra, “questo globo ove l’uomo non è nulla”. Nulla sono le più grandi costruzioni umane, non solo quelle materiali, ma anche quelle morali di popoli e civiltà, che franano miseramente davanti alla furia della natura. “Caggiono i regni intanto, passan genti e linguaggi: ella non vede”. Eppure, nonostante tutto, “l’uom d’eternità s’arroga il vanto”. Davanti a tanta stoltezza, l’elogio di Leopardi va allora alla pianta del deserto: molto “più saggia” sei tu rispetto all’uomo, perché le “tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali”. Lungi dal costituire null’altro che il canto di un incorreggibile pessimista, questi versi danno voce alle angosce che si annidano sul fondo dell’animo di ciascuno, riportate a galla con forza dirompente ogni volta che la mano della natura colpisce ancora. Insieme ad uomini e cose vengono spazzate via molte certezze. La condizione di disorientamento esistenziale di chi si è confrontato con il “male” cosmico è descritta egregiamente nelle pagine autobiografiche che Benedetto Croce dedica alla tragica esperienza del terremoto di Casamicciola, in cui perse l’intera famiglia: “La mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere e le altre congiunte ansie giovanili mi toglievano ogni lietezza di speranza, m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane”. Ma davanti a questo, ciascuno propone la sua terapia. Leopardi esorta gli uomini ad unirsi nella “social catena” della solidarietà, per combattere una “guerra comune”. Croce ricorda a tutti che “su questo terreno, traballante a ogni passo, dobbiamo fare il meglio che possiamo per vivere degnamente, da uomini, pensando, operando, coltivando gli affetti gentili; e tenerci sempre pronti alle rinunzie senza per esse disanimarci”. Infatti, come scrive la sociologa Bruna De Marchi, “il terremoto, metafora della fragilità umana, della provvisorietà e dell’impotenza, ambisce, però, a rovesciarsi, a trasformarsi in metafora della continuità, del radicamento alla terra, della potenza della volontà”. Il bene che scaturisce, nonostante tutto, dal male. La pianta che fiorisce nell’arsura della terra lavica. È il vento dell’ecologia, che soffia dal dramma nucleare del Giappone e che sta raggiungendo anche noi: quello che possiamo fare è stringere una nuova alleanza con la natura, non certo dichiararle guerra. È il monito che viene da Fukushima.