di Gianmarco Botti
Per Gino Strada parlare di guerra umanitaria è “la più grande bestemmia mai sentita”. La guerra è guerra e basta e non ha niente a che vedere con l’umanitarismo e il senso di umanità. Anzi, lo calpesta. E questo, secondo il fondatore di Emergency, vale per tutte le guerre: Kosovo, Afghanistan, Iraq sono solo alcuni nomi che, dietro il rassicurante slogan “Portiamo la democrazia!”, celano in realtà un panorama di morte e distruzione. Niente di diverso ci si può attendere – è il ragionamento di Strada – dall’odierno conflitto in Libia, nel quale, dopo più di un tentennamento, si è inserito anche il nostro Paese, seguendo buona parte delle nazioni occidentali. Non c’è una guerra buona ed una cattiva e perde di senso qualsiasi distinzione. Guerra difensiva, preventiva, democratica sono soltanto etichette diverse appiccicate ad un medesimo prodotto: un’enorme, inaccettabile, irrazionale strage di vite umane autorizzata dai governi degli stati. È questo grossomodo il motivo di fondo del pensiero di Strada e di tutto il pacifismo contemporaneo. Da condividere senza esitazione per il suo forte afflato etico e umanitario. Ma contestabile almeno in parte per il suo impianto abbastanza semplificatorio da non tener conto di alcuni dati che rendono la questione decisamente più complessa. Primo fra tutti il fatto che i conflitti bellici rappresentano, nella storia dell’umanità dalle sue origini ad oggi, un sia pur tragico e mortifero filo rosso. Lo scontro con il proprio simile è antico quanto l’uomo e lo ha accompagnato fin dai suoi primi passi sulla terra come un elemento di ferinità che permane immutato pur all’interno di un percorso di civilizzazione e avanzamento tecnico-scientifico. È quanto constata con amarezza Salvatore Quasimodo quando si rivolge, in alcuni celebri versi, a quello che chiama “uomo del mio tempo”, che poi è anche il nostro: in mezzo alla barbarie del fascismo e della II guerra mondiale, egli si rivela “ancora quello della pietra e della fionda”, protagonista di uno sviluppo materiale cui non corrisponde un equivalente progresso morale e che agli strumenti primitivi di aggressione ne sostituisce semplicemente di nuovi, più sofisticati e pronti all’uso. Il sangue versato nell’ultimo conflitto mondiale “odora come nel giorno quando il fratello disse all’altro fratello ‘Andiamo ai campi’ ”; e qui l’inclinazione dell’uomo alla guerra è riportata indietro fino alla preistoria biblica, all’uccisione di Abele da parte di Caino, emblema di quello scontro fratricida che la guerra sempre è perché mossa dall’uomo contro l’uomo. In termini differenti, anche i filosofi hanno posto l’accento sul conflitto come elemento originario della vita: a partire dal celebre frammento di Eraclito in cui si dice che “Polemos”, cioè la guerra, “è padre di tutte le cose, di tutte re”; passando per Hobbes e la sua idea di stato come unico argine alla “guerra di tutti contro tutti”, condizione primigenia dell’essere sociale degli uomini; fino ad Hegel e agli Idealisti che, in nome della concezione dialettica della storia, in cui ogni tappa deriva dal contrasto di due elementi opposti, arriveranno a comprendere la guerra come “igiene del mondo”. Essa è un momento essenziale di quella universale storia dello spirito che va sempre in avanti, incurante degli individui e della loro sorte, nella direzione del meglio. Anche il male, come può essere un conflitto militare con migliaia di morti, acquista un senso in questa prospettiva: non è altro che il bene visto dalla parte del meglio. Alla nostra sensibilità tutto questo può apparire orribile e inaccettabile, eppure ha trovato posto nella corrente di pensiero che, a partire dalla Germania, si è diffusa per l’Europa, dominando il XIX e parte del XX secolo. In Italia poi, ha avuto una solenne proclamazione nel manifesto futurista di Marinetti, magna charta di un’intera generazione di intellettuali che tanta parte avrà anche nell’ispirare i primi passi del movimento fascista. Ma da una simile visione, almeno fino allo shock della I Guerra Mondiale, non sarà immune neppure uno spirito liberale e antifascista come Benedetto Croce: la barbarie affonda le sue radici nelle viscere dell’umanità, fa parte della vita e non c’è processo di civilizzazione che possa cancellarla; la guerra, che rivela all’uomo questa componente animalesca in lui profondamente connaturata, è pertanto necessaria. Necessaria alla storia e al suo inesorabile procedere. In seguito Croce cercherà di sottomettere il fatto storico della guerra ad un discorso di carattere etico, proprio in un momento in cui guerra e morale si stavano allontanando sempre più. La teoria della “guerra giusta”, che poteva fregiarsi dell’autorevole sostegno di tutto un filone del pensiero cristiano, da Agostino a Tommaso d’Aquino, trovava sempre meno adepti. La stessa Chiesa Cattolica, da Benedetto XV che definì la I Guerra Mondiale “un’inutile strage” a Giovanni XXIII che per primo, nell’enciclica “Pacem in terris”, sostenne che “è contrario alla ragione pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”, in un crescendo di opposizione alla belligeranza dei popoli che ha insanguinato il Novecento, si è espressa in una netta condanna. È impresso nella memoria di tutti l’accorato grido di papa Wojtyla allo scoppio del conflitto iracheno nel 2003, quando richiamò l’intero mondo occidentale alla sua grave responsabilità di fronte alla storia e al mondo: Cc’è ancora tempo per negoziare, c’è ancora tempo per la pace. Non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare”; e ancora, “Mai più la guerra!”. Il che significa: non ci sarà mai più una guerra che possa essere benedetta da una qualsiasi giustificazione morale o religiosa. Ed in effetti, fatta eccezione per il perdurante inneggiare, in ambito islamico estremista, alla jihad, alla “guerra santa”, non c’è oggi più nessun conflitto fra popoli che possa essere considerato, da uno sguardo lucido e da una sensibilità ragionevole, guerra giusta. Nondimeno i motivi di conflitto continuano ad emergere ogni giorno e non si può non prendere atto di certi eventi che minano drammaticamente la pace nel mondo. Né si può stare a guardare. La guerra in Libia non è iniziata con l’intervento dei Paesi occidentali, Francia in testa: da mesi assistevamo ad una guerra civile intrapresa da un dittatore scellerato nei confronti del suo popolo. Diviene allora necessario, in un mondo globalizzato che aspira ad essere sempre più unito, intervenire al fianco di quei popoli che – è il caso della gioventù di Tripoli e di Bengasi, così come di quella egiziana e tunisina – sentono forte il vento della democrazia e della libertà. Purché, come più volte è avvenuto in passato, il soccorso non si trasformi in occasione di facili profitti economici. Purché tutto non si riduca ad una questione di petrolio. Magari è utopia, un semplice sognare. Ma ne vale la pena, se c’è chi lavora ad un sogno ancora più grande: è il caso della Rete italiana per il Disarmo che una settimana fa ha lanciato il suo messaggio, attraverso il coordinatore nazionale, al pubblico televisivo della prima serata.
“Imagine all the people
Living life in peace…
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one”
(“Imagine”, John Lennon)