di Gianmarco Botti
“La proposta di un dialogo aperto, positivo”, “un dialogo tra scienza e religione, tra filosofia e spiritualità, tra gente comune e testimoni d’eccellenza”: così in prima battuta viene definita, sul suo sito ufficiale, “L’Arte della Felicità”. Teatro di questo dialogo, per l’edizione 2011 come per le precedenti, è stata la città di Napoli, assurta, quasi a riparazione delle offese inferte negli ultimi anni alla sua dignità, a capitale internazionale del pensiero. Luoghi simbolo del suo inestimabile patrimonio artistico e morale, come Villa Pignatelli Cortes e l’Istituto per gli Studi Filosofici, hanno ospitato veri e propri mostri sacri della cultura contemporanea – i filosofi Cacciari e Masullo e il sociologo Bauman, per fare qualche nome – in quella che gli organizzatori definiscono “un’esperienza culturale sui temi forti del vivere quotidiano”. E nessun tema può dirsi più “forte” di quello della felicità, significativamente scelto per costituire un ideale filo rosso intorno al quale si sviluppino le riflessioni che, ad ogni edizione, animano il dibattito. Quest’anno è stata la volta della solitudine. Felicità e solitudine. Connubio quanto mai curioso e impopolare in un tempo in cui la solitudine viene sempre più identificata con la piaga sociale della depressione e l’unica felicità possibile sembra risiedere in una vita “piena”, piena di cose e di persone attorno, non certo nel silenzio di un’anima che riflette su se stessa e sulla realtà. L’unica solitudine consentita in questo mondo globalizzato diviene allora quella dell’individuo che vuole realizzarsi, appunto, da solo, senza e magari contro gli altri, in quella corsa cieca al profitto che caratterizza il più esasperato capitalismo moderno. Una felicità che consiste nel fare e nell’avere, più che nell’essere, quella a cui sente di poter aspirare l’uomo del 2000. La ricetta che egli propone alle nuove generazioni è la seguente: “Fissatevi un traguardo che dentro di voi sentite di poter raggiungere, molto, molto ambizioso. Dedicate la vita a raggiungerlo, dimenticate ciò che vi può distrarre”. E a chi non si sentisse a proprio agio all’interno di una simile prospettiva, ma fosse desideroso di fare semplicemente “un po’ di carriera”, risponde ancora: “Solo un po’ di carriera? Così cominci male. Devi dire: un carrierone. Sei tu che devi importi agli altri, non sono gli altri che devono accettarti”. “Felicità” è uguale “realizzazione”. “Realizzazione” è uguale “carriera”, anzi “carrierone”. Sulla prima parte dell’equazione, proposta da quell’uomo del 2000 per eccellenza che è il nostro Presidente del Consiglio ad una platea di giovani universitari, non si può non essere d’accordo. Concorda l’intera tradizione filosofica occidentale, identificando nell’essere felici la realizzazione più autentica dell’uomo in quanto uomo, di ciò che l’uomo è. Che la si chiami piacere come gli Epicurei o perfetta imperturbabilità d’animo alla maniera degli Stoici o ancora estasi o congiunzione al divino come vuole il filone mistico del pensiero cristiano, resta il fatto che la filosofia ha sempre visto nella felicità il fine supremo della vita dell’uomo. Anzi, la filosofia in genere, intesa come inarrestabile esigenza di ricerca insita nell’animo umano, non è nient’altro che questo: ricerca della felicità. Che è il titolo di un bel film di Gabriele Muccino in cui Will Smith veste i panni del venditore di apparecchiature mediche Chris Gardner che, partendo da una condizione di assoluta povertà, alla fine riesce a sfondare e a diventare un imprenditore milionario. L’intreccio, reale al pari del suo protagonista, si configura come la classica parabola del capitalista, il “selfmademan” che ce la fa credendo in se stesso, e sembrerebbe riprendere puntualmente, avvalorandola, la seconda parte dell’equazione berlusconiana. E invece c’è dell’altro: la felicità per Chris non arriva soltanto con la carriera. Il successo economico scaturisce dalla conquista di un rinnovato equilibrio con se stesso e con gli altri, complice la trasformazione prodotta il lui dalla responsabilità di un figlio a carico. Sullo sfondo c’è il suggestivo richiamo delle più belle parole inserite da Thomas Jefferson nella Dichiarazione d’Indipendenza: quelle in cui fra i diritti inalienabili di ogni uomo, accanto alla vita e alla libertà, viene annoverato anche “il perseguimento della Felicità”. Una felicità, appunto, da perseguire, ricercare, per cui lottare. Niente di diverso vuole dire la nostra Costituzione quando all’articolo 3 afferma il dovere della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, la sua realizzazione che in definitiva consiste nell’essere felice. D’altronde, se è vero che la filosofia è ricerca della felicità, compito primario della politica è assicurare ai cittadini il suo raggiungimento, quella “beatitudo huius vitae” che Dante distingue dalla beatitudine celeste quando separa potere civile e spirituale. La medesima distinzione l’ha proposta Massimo Cacciari nel suo contributo a “L’Arte della Felicità”, riscoprendone le radici nel pensiero greco: la beatitudine piena, impassibile e inalterabile, è “makarìa” ed è concessa solo agli dei; la felicità che i mortali possono raggiungere su questa terra consiste invece in una “vita realizzata”, la sola in quanto tale degna di essere vissuta: in una parola, “eudaimonìa”. Essa è propria di quell’anima che, come vuole la più lucida coscienza della grecità incarnata da Socrate, si trova in accordo con se stessa, totalmente libera da ogni condizionamento esteriore. Partendo da questo imprescindibile presupposto, la rivoluzione cristiana ha poi individuato la necessità della relazione con l’altro come fondamento di una vita veramente felice. Anche nella nostra società consumistica danaro e potere non bastano a rendere felici, ma la felicità dell’individuo è strettamente connessa al rapporto con gli altri. Lo dice Zygmunt Bauman, un’altra grande voce dell’evento napoletano, in un saggio che sembrerebbe scritto apposta per l’occasione: “L’arte della vita”. Costruire la propria vita passo dopo passo è un’arte. E precisamente è l’arte della felicità.
“Questa parte della mia vita, questa piccola parte della mia vita si può chiamare felicità!”
(Will Smith alias Chris Gardner in “La ricerca della felicità”)