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La fatica di restare umani

di Gianmarco Botti

Il grido disperato che viene da Gaza, dove qualche giorno fa è caduto l’attivista Vittorio Arrigoni, apostolo dei diritti umani e ultima vittima in ordine di tempo della disumanità del terrorismo islamico, suona come un monito per il mondo intero e per il periodo assai oscuro che sta attraversando: “Restiamo umani!”. Un appello che potrebbe sembrare superfluo in un’epoca che si ritiene la più civile e sviluppata di tutte, ma che, come dimostra il fatto che un disarmato portatore di pace trovi la morte nella terra a cui ha dedicato la vita, necessita ancora di essere gridato chiaro e forte. Né si può rimanere indifferenti, come se la cosa non riguardasse che i fronti di guerra, unici teatri dello spettacolo tragico della disumanità. È proprio questa a farla da protagonista anche in quei veri e propri bollettini di guerra che sono diventati i nostri telegiornali, con il carico di atrocità che tutti i giorni riversano su un pubblico sempre più assuefatto ad ogni genere di violenza: maestre che seviziano i bambini loro affidati, giovani teppisti che danno fuoco a senzatetto per puro divertimento, barconi di migranti in fuga da terre devastate che affondano nel mare dell’indifferenza. È quando il male diventa banale – si può dire parafrasando il titolo di una nota opera di Hannah Arendt -, quando ci si abitua al continuo oltraggio della dignità dell’uomo, tanto che questo finisce per non destare più scalpore né indignazione alcuna, che l’umanità è davvero a rischio. Paradosso di un tempo che di diritti umani si riempie la bocca, che ne fa una bandiera da sventolare nei più duri scontri di civiltà, ma che regolarmente li disattende e calpesta. Eppure “umanità” descrive ancora quel nucleo fondamentale di valori di cui non si può pensare nessuno più alto; essa continua ad essere, nel sentire comune, la virtù più nobile di tutte e non c’è attestato di stima maggiore che si possa tributare ad una persona del definirla “umana”. Già il circolo degli Scipioni innalzava a sommo valore il sentimento latino dell’“humanitas” e il commediografo Terenzio poteva sentenziare: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, ossia “Sono un uomo, niente di umano ritengo a me estraneo”. Con altre parole, decine di secoli più tardi, Immanuel Kant esprimerà il concetto antico e insieme sempre nuovo: “Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, e mai solo come mezzo”. Nella massima kantiana, che rappresenta la più intensa e suggestiva delle formulazioni di quell’imperativo categorico che il filosofo pone al culmine della morale, è racchiusa l’inestimabile ricchezza dell’umanità quale patrimonio comune che unisce l’individuo agli altri, un valore che non si presta a strumentalizzazioni o abusi di sorta. Un valore, anzi, che se è proprio di ognuno di noi come “carattere del genere a cui apparteniamo”, scrive un brillante discepolo di Kant come Johann Gottfried Herder, tuttavia per non rimanere allo stato di semplice “disposizione”, “dev’essere educato”: questo perché “non veniamo al mondo possedendolo già compiutamente, ma, su questa terra, esso dev’essere la meta di tutti i nostri sforzi”. Non dunque un qualcosa di già dato una volta per tutte come corredo genetico della specie “homo sapiens”, ma una meta a cui tendere sempre più nel tentativo di raggiungerla e conquistarla. Di un simile sforzo si è fatto carico tutto il filone del pensiero umanistico e illuministico che ha avuto il suo apice, in età contemporanea, nella “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948. Come un faro che illumina il cammino dell’uomo nel venir fuori dalla stagione buia delle guerre mondiali, essa rappresenta la magna charta di tutte le democrazie moderne. Se è vero infatti che neppure la democrazia può dirsi una forma di governo perfetto, nondimeno va riconosciuto che, fra i molteplici sistemi politici costruiti nel corso della storia, essa rappresenta di gran lunga il modello più rispettoso dei diritti umani di uguaglianza e libertà. E non è un caso che le correnti di pensiero storicamente avverse all’ideale democratico siano quelle che più di tutte hanno attaccato il concetto di umanità e la filosofia che le sta dietro. Contro l’umanitarismo, a suo avviso confuso con un malinteso senso d’umanità, si scaglia il grande scrittore tedesco Thomas Mann, esponente di primo piano del fronte conservatore e antidemocratico di inizio ’900: nelle “Considerazioni di un impolitico” il dito è puntato contro il “letterato della civilizzazione”, emblema del pensiero illuministico e umanitario, democratico e progressista, narrativamente rappresentato da uno dei protagonisti della “Montagna incantata”, l’italiano Settembrini, al quale viene contrapposta polemicamente la sinistra figura del gesuita reazionario Naphta. Ma il più duro attacco ai principi umanitari e democratici era stato sferrato qualche decennio prima dalla penna di un teologo russo, Vladimir Solov’ёv, autore di un “Breve racconto dell’Anticristo”: qui ad essere messo sotto processo è quello che Ernesto Galli della Loggia in un suo recente articolo sul tema definisce “il pensiero dominante della nostra epoca, il suo senso comune”, fatto di pacifismo, difesa dei diritti umani, democrazia. Al centro del racconto c’è appunto la critica pungente di questi valori, incarnati da alcune figure simboliche: l’Uomo politico, un “letterato della civilizzazione” in salsa russa, è il sostenitore del “progresso della cultura che domina il presente”; il Principe, “apostolo della non resistenza al male”, ricorda da vicino un altro principe, Mykin, l’idiota di Dostoevskij, una sorta di Cristo moderno tutto bontà e purezza. Ma il bersaglio polemico di Solov’ёv è, secondo Galli della Loggia, un altro celebre romanziere russo: quel Tolstoj, alfiere di un “buonismo democratico”, portatore di un “convenzionale filantropismo”, che ha sostituito alla fede cristiana un’altra fede, “la religione dell’Umanità, l’umanitarismo”. Egli è così divenuto qualcosa di simile ad un “papa laico, firmatario a getto continuo di manifesti di protesta contro la guerra, contro il patriottismo, contro la violenza, contro la censura”. Ma, agli occhi di Solov’ёv, più che ad un papa, Tolstoj assomiglia ad un vero e proprio Anticristo. Anticristo sarà “il nuovo padrone della terra”, “l’uomo del futuro”: “un filantropo, pieno di compassione e non solo amico dell’uomo, ma anche amico degli animali”; e, ancora, pacifista convinto, vegetariano, fermo avversario della vivisezione. La bocciatura in blocco di tutti quei valori umanitari, ecologisti, democratici e antimilitaristi che costituiscono il sostrato morale del nostro tempo mette Solov’ёv al di fuori della modernità intesa nel suo senso più positivo. E la contrapposizione che egli pone fra tutto questo e Cristo divide i destini della democrazia da quelli del Cristianesimo, storicamente dimostratisi uniti in modo indissolubile al punto che perfino l’Illuminismo laico e antireligioso sarebbe impensabile senza quel retroterra spirituale. Ma per molti tutto ciò è solo buonismo, elogio del politicamente corretto, una melassa di buoni sentimenti da film disneyano che con la vita vera ha poco a che fare. È questa la critica che di frequente viene mossa, ad esempio, anche in ambiente cristiano, a coloro che, come il settimanale cattolico “Famiglia Cristiana”, levano la loro voce contro tutte le violazioni dei diritti umani, specie di quelli dei migranti. Ma si sa, il buonismo oggi non va più di moda. Ad esso è subentrato un altro, ben più seducente e virile neologismo: il “cattivismo”. Esso ci solleva da quella pesante, esigente fatica di restare umani.