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La resurrezione di un popolo

di Gianmarco Botti

Un “passaggio” dalla schiavitù alla libertà, dal peccato alla salvezza, dalla morte alla vita: è questo il significato, per ebrei e cristiani, del termine “Pasqua”. Per Mosè e i suoi il passaggio si è svolto attraverso le acque del Mar Rosso, aperte dalla potenza di Dio che accompagnava l’esodo del popolo eletto; per i discepoli di Cristo il vero passaggio è stato compiuto dal loro Maestro nel risorgere dal sepolcro in cui lo aveva relegato l’atroce morte sulla croce e può compierlo ancora ogni uomo che voglia rinunciare al peccato per abbandonarsi alla grazia salvifica in un cammino di sincera conversione. Fare memoria di questi due momenti topici della storia religiosa universale è ricordare come l’esperienza del passaggio, materiale o spirituale, storico o esistenziale che sia, caratterizza dall’inizio alla fine la vicenda umana dell’individuo e della collettività. La vita di ciascuno è fatta di un continuo “passare” da una condizione all’altra, di cambiamenti repentini ed evoluzioni lente, ma comunque sempre di un incessante movimento fra poli talvolta addirittura opposti: si passa dalla gioia al dolore, dalla salute alla malattia, dalla vittoria alla sconfitta e viceversa innumerevoli volte nell’arco di una sola vita umana. E la sua stessa conclusione, che non a caso chiamiamo “transito”, viene comunque da tutti considerata un passaggio ad un’altra dimensione, che sia quella del nulla o della vera vita spirituale. Allargando la prospettiva, anche la storia globale, che è principalmente storia di popoli e di nazioni, si configura come un susseguirsi di passaggi, attraverso la fitta maglia degli eventi, da uno stadio all’altro, avanti e indietro, secondo mai conclusi corsi e ricorsi, per dirla con Vico. E il passaggio principale, compiuto più volte nel corso dei secoli e che ancora tante volte dovrà necessariamente compiersi, non può che essere questo: il rischioso ed entusiasmante volo che porta dalla prigionia alla libertà. L’intera storia mondiale, nella sua estensione cronologica e geografica, è un irrefrenabile grido di liberazione, una liberazione per cui lottare nello sforzo di attuarla in maniera sempre più perfetta. È il grido lanciato dal popolo d’Israele nell’uscire da quella terra di schiavitù che era stato l’Egitto, quello che echeggiò nel sepolcro di Gerusalemme, quando le donne, giunte per rendere omaggio al corpo di Gesù, ricevettero dall’angelo l’annuncio della sua resurrezione. È perciò particolarmente interessante notare, come ha fatto la filosofa Roberta De Monticelli, ospite di Lilli Gruber alla trasmissione Ottoemezzo, come quest’anno alla ricorrenza cosmica della Pasqua sia seguita un’altra, tutta storica e tutta italiana: il 25 aprile, anniversario della liberazione, caduto proprio nel giorno che chiamiamo “Lunedì dell’angelo” per ricordare il primo annuncio pasquale. La coincidenza offre l’occasione per guardare ad un momento storico così importante per la coscienza morale e politica del nostro Paese da una prospettiva nuova, che trascende l’evento stesso per sviluppare una riflessione profonda su quel passaggio epocale che chiamiamo appunto liberazione. Allora si trattò di liberare l’Italia dal giogo ventennale del fascismo che nell’ultimo periodo aveva anche legato le sue sorti all’odioso totalitarismo nazista, lanciandosi al suo fianco in una folle guerra che insanguinò il mondo intero. Tenere viva la memoria di quel grandioso sussulto di dignità che significò la rinascita di una nazione, vuol dire rinnovare ogni giorno lo spirito di libertà di cui si nutrì. Lo stesso spirito aveva animato la strenua lotta per l’unità portata avanti dai patrioti di cui quest’anno ricordiamo i nomi e le imprese. È da lì che ha preso corpo la frustrazione dei popoli del Nord Africa, impegnati dai primi mesi del 2011 a riappropriarsi di quella democrazia che dittatori mascherati da capi di stato avevano pervertito. Esempi simili devono scuotere le sonnolente repubbliche occidentali dalla catalessi in cui le ha gettate la convinzione di essere ormai al riparo, di non aver più nulla per cui lottare, nessuna liberazione da attuare. È su questa illusione che si fonda il rischio, mai scongiurato, di tornare indietro. A tal proposito suona come un ammonimento la celebre massima di Rousseau: “L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene”. Eliminare queste catene è la missione che hanno voluto prendere su di sé le più importanti ideologie della storia del pensiero moderno: l’Illuminismo ha visto nella religione, nel principio di autorità e nel dogma i lacci che tengono avvinta l’umanità in uno stato di minorità intellettuale prima ancora che politica; il Marxismo da sempre ha identificato nello stato borghese e nell’economia capitalista l’ostacolo da rimuovere per realizzare la vera libertà che consiste in una società senza classi. Il fatto che in entrambi i casi sul nobile proposito di liberazione dell’umanità si sia costruita la sua oppressione attraverso la costruzione di sistemi politici niente affatto liberali, la dice lunga. Rende chiaro che la libertà non può venire dall’esterno, per imposizione di uno stato, per effetto di una rivoluzione che sia soltanto politica. Troppo si è discusso e polemizzato sul fatto che senza l’intervento degli americani probabilmente la liberazione del nostro Paese non ci sarebbe mai stata. E forse quella tendenza tutta italiana ad affidarsi a sempre nuovi padroni è da attribuire proprio al fatto che chi la libertà non se l’è data da sé, facilmente se la fa togliere di nuovo. È la saggezza antica ma sempre attuale che viene dal noto “mito della caverna” di Platone: il prigioniero che riesce miracolosamente a liberarsi, che viene alla luce del sole e ne resta abbagliato, prototipo del filosofo che ha contemplato la verità, al suo ritorno nella caverna, quando tenta di spezzare le catene dei suoi compagni di prigionia, trova la morte per mano loro. E così a Rousseau risponde Fichte: “Essere libero è nulla, divenirlo è cosa celeste”.