di Fabrizio Romano
C’è qualcosa, nella vita di chi adora il giuoco del calcio nella sua essenza più gustosa, che ha un sapore speciale. Qualcosa che suscita la stessa emozione in chi lo è, in chi vorrebbe esserlo e in chi invece si limita ad osservare basito. Quel qualcosa è la maglia numero dieci, la sublimazione dell’essenza del calcio nel corpo di un uomo, generalmente non altissimo ma piccolo cilindro dotato di espedienti tendenti al magico clamorosamente belli. Già, i veri numeri dieci sono quelli che emozionano ad ogni carezza al pallone, quelli che ti strappano l’applauso anche al passaggio più banale, quelli che una punizione non la battono come tutti i comuni mortali, ma la dipingono. Il numero dieci è qualcosa di più, qualcosa di elevatissimo e inarrivabile, qualcosa che porti dentro nel sangue, che o ce l’hai dentro oppure puoi soltanto sederti ad ammirare chi possiede il prezioso dono. In questi giorni, tra il rinnovo di Alessandro Del Piero con la Juventus e le nuove discussioni con la fiscalità italiana del dieci per eccellenza, Diego Armando Maradona – ma queste leggende, per ora, lasciamole al loro posto – è balzata all’onore delle cronache la notizia del sorpasso di Francesco Totti, eterno capitano della Roma, ai danni di Roberto Baggio per reti segnate in Serie A, 206 a 205. E immediatamente è partito il polverone mediatico: chi merita l’Olimpo tra i due? La riflessione è complessa, particolare, ma ci consente di entrare nel magico mondo del dieci, noto a molti ma conosciuto realmente da pochi.
Francesco Totti è il numero dieci d’affezione. Ventidue anni con la maglia della Roma addosso, soltanto quei colori giallorossi, qualche sprazzo d’azzurro e nient’altro. Totti è qualcosa in più del capitano della Roma, Totti è la Roma ed è Roma, è il simbolo della fetta giallorossa della Capitale, una sorta di entità eterna inarrivabile, la trasposizione del Colosseo sul rettangolo di gioco. Totti è il dieci leggero, il dieci che – proprio perché simbolo di un’intera città – si carica una squadra e una tifoseria sulle spalle ogni domenica, il leader più totale e più allegro, ma troppo spesso esagerato. E’ il limite di un campione straordinario, tecnicamente immenso, costretto talvolta a incappare in gesti poco educativi (lo sputo a Poulsen è la perfetta copertina) pur di essere al centro di tutto. Francesco Totti è il dieci che fa impazzire il suo tifoso, il dieci che ti fa sorridere nel vederlo giocare, il dieci alla brasiliana che quando è in giornata vale da solo non il biglietto, ma l’intero abbonamento.
Il limite di Totti, però, non è da poco. Il dieci deve dare un esempio a chi compra la sua maglietta, ai bambini che corrono giù al parco con un pallone in mano urlando: “Io sono Totti!”, tanto per fare un esempio. Quel bimbo dev’essere il Totti delle punizioni fatate, il Totti del destro maligno, non il Totti che sputa e sbeffeggia, che si rivolge ripetutamente all’arbitro come fosse suo fratello. E qui arriviamo all’altro dieci, a Roberto Baggio. Il Divin Codino è il perfetto rappresentante dell’altra sotto-categoria dei dieci, quella straordinariamente poetica e meno casereccia, quella Leopardiana e non Pirandelliana, quella del campione che riassume in sé il bello del calcio meno dinamico e più classico. Roberto ha vestito la maglia di tantissime squadre, dalla Fiorentina alla Juventus passando per Milan e Inter, chiudendo all’amatissimo Brescia. Una carriera dove è stato spesso denominato ‘traditore’, un traditore che però tutti finiscono per amare lo stesso. E’ come la ragazza che ti lascia, alla quale sul momento dici di tutto, quando in realtà dentro di te pensi tutt’altro. Baggio è il tipico numero dieci malinconico, mai fuori posto, mai scorretto, talvolta soggetto a crisi d’identità dalle quali poi viene fuori con un’inenarrabile serie di colpi da maestro. Roberto è stato il dieci di cui si innamorano i bambini più timidi, quello che con una pennellata su punizione sapeva commuovere i tifosi del Brescia, quello che sarebbe stato un quadro meraviglioso se ritratto in una sua tipica azione con la palla innamorata del suo destro tanto da non lasciarlo mai pur di sentirne ancora le carezze, e quel codino fluttuante a distinguerlo da chi il dieci lo porta quasi per sbaglio.
Baggio è il dieci di cui puoi parlare ai nipoti, l’eroe della cui storia non devi omettere nulla – come sputi o tunnel spiacevoli -, perché non ha sbagliato niente. Roberto Baggio è l’esempio del numero dieci che cammina, incarna una divinità del pallone in due gambe, con quel sorriso mai convinto e sempre in ombra, ma parte di un personaggio da leggenda. Il dieci perfetto, l’esempio vero, quello da mettere in cornice perché ti ha emozionato con le sue giocate più che con le sue mosse da circo, nelle quali troppo spesso incappa il buon Totti. Qui sta la differenza tra le due categorie, che riassumono la malinconia e la joya, il calcio del dieci che incanta e il calcio del dieci che trascina. De gustibus non disputandum est, ognuno sceglie quel che preferisce. Ma è sempre grazie ai numeri dieci che il pallone diventa come d’incanto una penna, e il calcio, per i bambini come per gli anziani, diventa una meravigliosa poesia.