di Ilaria Giugni
Ormai una settimana fa, Osama Bin Laden cadeva nel suo bunker ad Abbottabad, vicino ad Islamabad, sotto il fuoco americano. A circa dieci anni dalla strage dell’undici settembre, il più pericoloso ricercato viene neutralizzato. Nessun arresto, nessun processo: il capo di Al Qaida riposa orà sul fondo dell’oceano. Le parole si sprecano: molti esultano della sua uccisione, altri dichiarano ancora aperta la lotta al terrorismo, persino il presidente degli Stati Uniti appare a reti unificate per annunciare che l’obiettivo è abbattuto.
Tanti fingono di non sapere che quella di Osama Bin Laden è stata un’esecuzione. Nessuna fatalità: il leader di Al Qaida doveva morire, sarebbe stato un prigioniero scomodo, ingombrante.
Tanti fingono di non sapre che tutto questo è in contraddizione con il concetto di guerra come “esportazione della democrazia”, ammesso che qualcuno ci abbia mai creduto. Un paese democratico avrebbe assicurato a Bin Laden un processo equo, l’avrebbe condannato a scontare una pena giusta per gli atroci crimini commessi. Ma è caduto sotto una scarica di proiettili e la parola democrazia non ha più alcun significato. Osama Bin Laden era un terrorista, il responsabile di un numero ignominioso di morti innocenti, ma era anche un uomo e, come tale, aveva diritto ad un giusto processo e a scontare la sua pena. Questi ultimi dieci anni ci hanno cambiato profondamente, ci siamo sentiti insicuri, abbiamo riconosciuto un nemico comune da abbattere, ma abbiamo forse dimenticato la battaglia legittima che portano avanti associazioni come “NessunotocchiCaino”.
E nel sangue di questi giorni, torna alla mente uno dei testi più belli di Guccini, nel quale ci si chiedeva timidamente “quando sarà che l’ uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare”. Ebbene, si tratta della domanda che dovremmo cominciare a porci, con forza, oggi.