di Gianmarco Botti
Nella caotica, chiassosa e violenta campagna elettorale che per settimane ha attraversato l’Italia in lungo e in largo e che in questi giorni si avvia alla conclusione a Napoli e a Milano, una parola è risuonata su tutte, tornando a tenere banco dopo un paio di decenni di assenza dalla scena politica: ideologia. È dalla fine della guerra fredda sullo scacchiere internazionale e, in Italia, dalla dissoluzione della Prima Repubblica, che si ripete in maniera quasi ossessiva che le ideologie sono morte e che la nostra è un’epoca “post-ideologica”. Non ci sarebbe più il vento delle ideologie a spingere avanti la nave della politica, né i partiti italiani, sovente definiti “partiti di plastica”, avrebbero più alcuna connotazione in tal senso. Eppure, se praticamente tutti i commentatori hanno parlato di una campagna elettorale ad impostazione fortemente ideologica, qualche motivo ci sarà. La virulenza dello scontro, inusuale per delle elezioni amministrative ancorché importantissime per la rilevanza nazionale di cui il Governo ha voluto caricarle; il richiamo costante nel dibattito fra i candidati a temi di portata universale come quello della libertà di culto e delle moschee, della droga e delle unioni civili: tutti chiari segni del fatto che in Italia le ideologie sono più vive che mai, risorte dalle ceneri di un passato che non può più tornare, ma intimamente trasformate nella loro essenza. Niente a che vedere con le ideologie novecentesche, crollate assieme al muro di Berlino dopo che per decenni avevano esercitato un potere assoluto sulle coscienze, dividendo sì il mondo a metà, ma alimentando in maniera decisiva la dialettica democratica all’interno degli stati e del nostro in particolare. Allora ideologia era sinonimo di “Weltanschauung”, ovvero quella visione del mondo, politica, filosofica o religiosa che fosse, che era sottesa a ogni relazione autentica con gli uomini e con la società. Dire “ideologia” non era così diverso dal dire “idea” e stava ad indicare quel grado di consapevolezza e convinzione in ciò che si faceva, la tensione verso un “ideale” che sempre spingeva ad agire. Si sono viste ben poche idee dietro certi passaggi di questa campagna elettorale e quella che è stata definita ideologia altro non era che la cappa creata ad arte per coprire questo vuoto di contenuti e nel contempo attaccare frontalmente l’avversario. Si obietterà che anche nel secolo scorso le ideologie sono state spesso strumento di violenza e di contrapposizione, esca potente per aizzare le masse al conflitto permanente; mai però esse erano state asservite così spudoratamente alla più nefanda “macchina del fango”, alla più agguerrita caccia all’uomo che attaccando la persona intende demolire la sua proposta politica. Ha ragione Filippo Ceccarelli quando scrive su Repubblica che “occorre forse riconoscere che nella post-politica il marketing della ferocia e dell’intolleranza ha preso il posto delle ostilità ideologiche e dell’odio di classe”. Non dunque un’evoluzione, ma un brusco ritorno indietro, ad una preistoria culturale che si sperava sepolta definitivamente: il clima è quello della caccia alle streghe. Quella, metaforica e concreta, che ispirò al drammaturgo Arthur Miller uno dei suoi più suggestivi lavori teatrali, “Il crogiuolo”: negli anni in cui il senatore McCarthy dava vita negli Stati Uniti ad un vero e proprio tribunale dell’Inquisizione che perseguiva chiunque fosse in odore di simpatie comuniste, l’opera mette in scena l’esplosione di fanatismo e follia collettiva che ebbe luogo in pieno ’600 nella cittadina di Salem, teatro dei più noti processi per stregoneria della storia. “Non fu soltanto la nascita del maccartismo a provocarmi”, ricorda Miller, “ma qualcosa che appariva molto più fatale e misterioso. Era il fatto che una campagna politica (…) fosse in grado di creare non soltanto terrore, ma una nuova realtà soggettiva, una vera mistica che stava a poco a poco assumendo addirittura una colorazione sacra (…) vedevo uomini consegnare la propria coscienza ad altri uomini e ringraziarli della possibilità che essi gli davano di farlo”. Allora come oggi, spargere il terrore nei confronti dell’avversario serve a consolidare lo spirito di una comunità, a mobilitare l’elettorato, a fondare un’identità. È a quel punto che l’avversario diviene un nemico. Non serve scomodare la psicanalisi per comprendere come l’identità dell’individuo abbia bisogno in prima battuta di costruirsi “contro” qualcun altro e “avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità, ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro”. Queste parole, riportate ancora da Ceccarelli nel suo articolo, sono tratte da un recente libro di Umberto Eco, il cui titolo è tutto un programma: “Costruire il nemico”. Se il nemico non c’è, va costruito. E per farlo si può essere pronti a tutto, anche a paragonare il mite e sorridente Pisapia a niente meno che l’“Anticristo”, come ha fatto il settimanale cattolico Tempi. E a poco serve che un altro settimanale cattolico come Famiglia Cristiana constati con ben altro buonsenso che “con Pisapia non si rischia nulla di terribile”, e che nel linguaggio del candidato di centro-sinistra ci sia posto addirittura per un’espressione evangelica, come quando ha esortato i suoi sostenitori, in giorni di scontro accesissimo, “a porgere l’altra guancia”. Quello che conta è fare di Milano, Napoli o di qualsiasi altro posto, una “Pauropoli”, per riprendere il titolo che Gad Lerner ha dato alla puntata di questa settimana del suo Infedele. Il pessimismo antropologico e politico di tutti i tempi, a partire da Thomas Hobbes, ha sempre riconosciuto nella paura un fattore decisivo di aggregazione per una comunità. È su di essa che giocano i partiti populisti e xenofobi di tutto il mondo, a partire dall’ultradestra francese di Marie Le Pen e da quella austriaca che nei sondaggi più recenti risulterebbe il primo partito del Paese. Niente di diverso ha fatto il Governo italiano per tutta la campagna elettorale, tant’è che pure un osservatore più che moderato come la fondazione Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo ha puntato il dito contro le “fantomatiche invasioni di gay, spacciatori, musulmani e zingari” a cui gridano ogni giorni gli esponenti della maggioranza. Tuttavia, un segnale positivo c’è. Viene fuori dal primo turno del voto di Milano e potrebbe essere confermato al ballottaggio: gli elettori hanno detto no ad una campagna basata esclusivamente sull’odio, lontana dai problemi concreti della gente e desiderosa solo di alzare i toni con spot anti-magistrati o accuse infondate al passato dell’avversario. È la riscossa delle idee sulle ideologie. Quella a cui ha assistito in questi giorni la Spagna, in cui dilaga la protesta degli “indignados”: “un risveglio della coscienza”, come lo ha definito la scrittrice catalana Maruja Torres, in cui ragazzi e ragazze riuniti dal web, al di là di ogni schema partitico, hanno voluto gridare forte il loro rifiuto di una politica corrotta, una democrazia “completamente svuotata di etica”, perché “sognano di avere dei valori”. Valori, ideali, idee. È di ciò che il nostro tempo ha bisogno, non certo di ideologia. Di questa dà un’eccellente definizione nel suo “Le origini del totalitarismo” la filosofa Hannah Arendt: “Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua ‘idea’ ”. L’ideologia, dunque, sta all’idea come la patologia sta alla fisiologia: ne rappresenta il pervertimento, la cristallizzazione in una formula dogmatica e incapace di porsi in dialogo con l’idea dell’altro. Tutt’altra cosa rispetto alla natura genuina delle idee così come sono sorte in Grecia con Platone, che ne ha fatto quei modelli intellegibili a cui tendere in un dinamico, instancabile sforzo. Qualcosa di mai totalmente posseduto e meno che mai da impugnare contro gli altri. Anche la politica se ne dovrebbe ricordare. Vale la pena rinfrescarle la memoria concludendo con le parole di un altro grande greco, quel Pericle che rese l’Atene del V secolo qualcosa di molto simile ad una repubblica “ideale”; esse furono pronunciate dallo statista in un discorso ai suoi concittadini e ancora sono risuonate in questi giorni a Napoli attraverso la voce di Roberto Vecchioni, intervenuto a sostegno del candidato sindaco De Magistris. La loro straordinaria attualità sia di monito a tutti.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
(Pericle – Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.)