di Gianmarco Botti
“Napoli viene dal greco e significa ‘città nuova’. Mai come ora occorre che per diventarlo, per diventare una città nuova, ritrovi il senso originario della parola polis, luogo in cui tutti gli abitanti ‘liberi’ partecipano attivamente alla vita politica, luogo in cui per tutti i cittadini ‘liberi’ valgono le stesse norme di diritto. Questo il sogno greco della cosa pubblica. Oggi spero che a Napoli sia un sogno possibile, realizzato da cittadini che dimostrano, invece, di ‘avere testa’.
Il sogno di Roberto Saviano, così come lo aveva consegnato alle pagine di Repubblica pochi giorni prima del fatidico ballottaggio del 29 e 30 maggio, si è realizzato solo a metà. È vero, comunque la si pensi, che la vittoria di Luigi De Magistris, secondo i pronostici destinato a non arrivare neppure al secondo turno, è frutto di una partecipazione attiva dei cittadini e di un’ondata di entusiasmo che ha attraversato la società civile e il mondo dei giovani in particolare. Ma è altrettanto vero che il dato sull’affluenza, uno spaventoso 50,57%, pesa come un macigno. Pesa come i cumuli di immondizia che in questi anni hanno testimoniato il fallimento di un’intera classe dirigente, ma che da soli non bastano a spiegare una così profonda disaffezione degli “abitanti liberi” al “sogno greco della cosa pubblica”. Nel mondo classico, cittadino libero era colui che, in quanto non costretto dalla necessità del sostentamento materiale, era libero di prendere su di sé il fardello della cosa pubblica, libero di partecipare alla vita politica; un privilegio per pochi, anche nella fiorente democrazia ateniese. Noi, che di quel mirabile sistema siamo figli e che da esso, come tutti i figli, ci siamo distaccati per intraprendere un autonomo ed emozionante processo di crescita e maturazione democratica che ci ha condotti al livello più ampio di partecipazione collettiva che mai si potesse immaginare, assistiamo tuttavia ad una situazione rovesciata. Se è vero che a Napoli solo un cittadino su due è andato a votare e che da un po’ di tempo a questa parte, anche a livello nazionale, tutti i sondaggi danno come primo partito quello dell’astensione, allora le cose non possono che stare così: oggi per il cittadino essere veramente libero significa essere libero dalla politica, scrollarsi di dosso quel fardello percepito come sempre più opprimente. La politica è ormai per i più una cosa sporca, da cui ci si allontana con disgusto. Il sogno greco della cosa pubblica in Italia è divenuto un incubo. Sembra lontana anni luce la celebre sentenza di Aristotele per cui chi “non è parte della città”, chi si sottrae al dovere della cittadinanza attiva rifugiandosi in un neghittoso disimpegno, “è una bestia o un dio”, ma non certo un uomo, “animale politico” per eccellenza e perciò destinato alla vita in comunità. Ed è nella dimensione pubblica che lo stesso ruolo del filosofo trova la sua più autentica realizzazione. Ma in tempi più recenti è difficile trovare un pensatore che, come l’autore della “Politica”, identifichi quasi del tutto il ruolo del filosofo e quello dell’uomo di stato, e senz’altro più rappresentativo del nostro contesto può dirsi il monito di Nietzsche: “Colui che ha in corpo il furor philosophicus non avrà più tempo per il furor politicus e saviamente si guarderà bene dal leggere i giornali quotidiani o dal militare in un partito”. Si tratta della terza “Considerazione inattuale”, inattuale forse per il tempo in cui fu scritta, ma che potrebbe fare da sottotitolo alla storia della filosofia in età contemporanea, caratterizzata com’è in massima parte dalla fuga dalla realtà per rifugiarsi in un astratto universo speculativo. Naturalmente non mancano le eccezioni, ma per individuarle bisogna fare un po’ più di fatica e uscire dal recinto tracciato dai chiari confini della filosofia propriamente detta: bisogna andare a scavare, ad esempio, proprio nel passato di Roberto Saviano, prima che salisse alla ribalta come l’autore di “Gomorra”, e si scoprirà che si è laureato in filosofia all’Università Federico II di Napoli con una tesi su “La verità nel tumulto. Max Weber e la politica”. Pensiero e politica si respirano anche in quelle “orazioni civili”, come vengono definiti i suoi monologhi televisivi, che uniscono mirabilmente riflessione e impegno civico, testimoniando come la filosofia possa avere ancora una chance nel mondo delle cose concrete e come la politica, per essere tale, non debba necessariamente svincolarsi da presupposti ideali, ma anzi, se ne debba nutrire di continuo. D’altra parte è così che nasce la politica, intesa come confronto “democratico” fra visioni diverse del mondo ed è per questo che, nella sua forma embrionale, nasce proprio in Grecia e non nelle più antiche monarchie assolute orientali: nella patria che ha dato i natali al dia-logos socratico e alla dialettica platonica e ha visto Aristotele consigliere personale della monarchia “illuminata” di Alessandro Magno, c’erano tutte le condizioni perché potesse svilupparsi quel “sogno della cosa pubblica” che da allora tutto sommato l’uomo non ha mai smesso di coltivare. Astrazioni, si dirà, vagheggiamenti anche questi, come tutto ciò che è filosofia. Cosa c’entra con noi l’antica Grecia e, soprattutto, si può mai pensare di sciogliere la complicata questione della disaffezione alla politica riesumando antichi filosofi e magari cavarsela tirando in ballo il percorso universitario di Saviano? No di sicuro. Bisogna spiegare perché metà dei cittadini napoletani non è andata a votare, come ha potuto crearsi questa distanza fra la vita pubblica e le masse, la gente comune. Ma è qui che ancora una volta entrano in scena i filosofi. Leggevo sul Mattino un’intervista ad Umberto Ambrosoli, avvocato come il padre, quel Giorgio Ambrosoli che fu fatto uccidere nel 1979 perché “se l’era cercata” ficcando il naso negli affari della Banca Privata italiana. Nella sua analisi del voto di Milano egli dissente nettamente da chi paventava, con la vittoria di Pisapia, il trionfo dell’estremismo rosso: “Pisapia ha vinto perché ha saputo interpretare la Milano moderata”, quella a cui non erano andate giù le tirate anti-giudici e il terrorismo psicologico su moschee e campi rom, per capirci. L’estremismo, dunque, la radicalizzazione dello scontro, come uno dei fattori che allontanano la gente dalla politica. Un popolo essenzialmente moderato quello italiano, checché se ne dica. Come spiegare meglio tutto questo se non facendo appello a quell’elemento radicato nel dna italiano e in generale occidentale che viene dalla riflessione aristotelica sull’etica e sulla politica? La virtù è nel giusto mezzo, l’equilibrio non sta mai in un estremo piuttosto che nell’altro. È l’eredità, inconsciamente custodita ancora come un tesoro prezioso dalla nostra cultura più profonda, del pensiero greco. Dall’antico al moderno, una pensatrice assai in voga in Italia in questi anni centra un altro punto fondamentale in cui sempre si identifica la causa del divorzio fra gli italiani e la politica: è Roberta De Monticelli, che nel suo “La questione morale”, ragionando sulla cosiddetta macchina del fango e sul suo utilizzo sistematico nel dibattito politico dei giorni nostri, afferma che essa fa leva sulla “convinzione che tutti razzolano male, e che non potrebbe essere altrimenti”. Da noi, continua la filosofa, il precetto evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra” vuol dire grossomodo “così fan tutti”. Non si può giudicare un politico per la sua condotta morale perché, è l’idea corrente, quella degli altri non sarà certamente migliore. Sono tutti uguali: è questa la certezza che, più o meno consapevolmente, è sottesa alla decisione di chi non va a votare. E Napoli può offrire ancora una volta un esempio calzante: l’infinito degrado della città è colpa di tutti, quindi né gli uni né gli altri ci toglieranno i rifiuti. E se tutto questo è più che comprensibile e in qualche misura anche giustificabile, considerando la prova indecente che la politica ha dato di sé negli ultimi anni in particolare nel capoluogo partenopeo, tuttavia va rilevato un fatto: finché sarà questa la mentalità dominante, mai nulla potrà cambiare. Finché non si sentirà l’entusiasmo della partecipazione, finché ognuno non farà proprio il “sogno greco della cosa pubblica”, questo sogno sarà lontano dal realizzarsi. Ancora da Saviano viene un appello che vale la pena di cogliere in conclusione: “Rischiamo che i valori che ci fanno stare insieme siano sepolti sotto ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Forse è giunto il tempo di poter pensare a ciò che siamo e a ciò che vogliamo”.