di Stefano Santos
Nutro ancora dei dubbi sulla data effettiva, ma so con certezza che la guerra è finalmente finita, cosa testimoniata dal fatto che adesso mi sto incamminando verso la casa dove venticinque anni fa ero nato, tra urla, grumi di sangue e placenta.
Tuttavia, mi è ancora oscuro il motivo per cui ogni ostilità sia cessata. Non so dire se sia stata questione di giorni, ore, minuti o secondi. Non mi rimane alcun ricordo degli avvenimenti intercorsi tra la battaglia e qui.
Rammento che stavo combattendo in trincea, e che all’improvviso una granata mi scoppiò in faccia. Credo di essere svenuto stordito, nulla più. Devo aver passato molto tempo incosciente: non un graffio, né cicatrici che possano testimoniarlo. Gli unici segni tangibili sono nella mia mente.
Nel silenzio della campagna, riesco ancora a udire gli scoppi di bombe. La puzza di morto mista a polvere da sparo sovrasta i profumi dei fiori estivi. La dolce brezza non mi libera dal calore del respiro dei miei compagni, né dall’odio cinereo dei miei nemici. Non è la ferita in sé a tormentare, ma i postumi che essa porta con sé.
Al pensiero, subito un coltello mi trafigge lo stomaco. Un’esistenza intera non mi sarà sufficiente per spazzare via quegli echi.
Ho atteso per così tanto tempo questo giorno. Andare contro le probabilità, contro le affermazioni dei cinici, e ritrovarmi qui, e riprendermi una volta per tutte, la mia vita.
Il paesaggio mi rinfranca, mostrandomi il meglio di sé soprattutto adesso, nelle ore dopo il pranzo.
Il sole perde la forza dello zenit, diventa conciliante. Non è più il tiranno che era prima. Appare quasi concedere alle ombre maggiore spazio, per permetterci di riposare. Con l’aumentata gentilezza, abbellisce ancora di più la natura, donando i suoi raggi dorati ai mari di grano maturo e luminosi riflessi cristallini alle fronde degli alberi.
In tutta questa riflessione, dimentico quanto abbia camminato.
Mi fermo, e mi accorgo che sono quasi arrivato. Dopo molte insenature del sentiero avanti a me, ecco che spuntano, tra pini e platani, i rossi tetti del mio paesino, immerso adesso nel suo riposo pomeridiano, placido e sonnecchiante.
Mi si stampa in volto un sorriso felice.
Infilo le mani nelle tasche in cerca di soldi, che fino ad adesso non mi sono serviti molto. Agito le falangi, sento la filigrana e tiro fuori la banconota. Cinquemila lire.
Bastano appena per i fiori.
Entro nel mio villaggio, così diverso quando ero partito.
Quel giorno tutti i miei concittadini si erano mobilitati per salutarci. Ricordo il singhiozzare delle madri, l’orgoglio dei padri e i tanti fazzoletti sventolati. Pure il Sindaco aveva fatto l’onore della presenza. Tenne un discorso alla folla. Al termine, partimmo verso il nulla.
Così mi accomiatai da loro.
Adesso nessuno mi ha ricevuto. La gente è confinata in casa, con le finestre chiuse. Così si combatte l’afa in attesa dell’estate.
Per le strade deserte svolazzano i passeri. Solitarie cartacce imbrattano l’acciottolato lindo. Crocchette e arancini, penso.
Inutile cercare un fioraio adesso, di domenica, all’ora della siesta e del campionato.
Metto in tasca i quattrini.
Passo davanti ad un’abitazione. Mi fermo, cerco tra i cespugli e gli alberi.
Avvisto, in mezzo a tanti frutti, l’unico corimbo di biancospini. Mamma dice sempre che sono simbolo di fortuna e prosperità. Mi piego per coglierli e ne cingo lo stelo con un fazzoletto. Lascio i soldi nella cassetta della posta, a risarcimento. Mi sento pronto, ma.
Scopro di tremare mentre scorgo, alla fine del viale, casa mia.
Un misto di angoscia, attrazione, nostalgia, paura. E mi inquieta. Ma no, è solo la mia voglia di abbracciarli. Proseguo.
Man mano che mi avvicino, la mia vista diventa più chiara. Vedo persone, tante persone. Una festa per me? Non mi sembra di aver chiamato. Non sembrano gioiosi. Sono vestiti… di nero. Un funerale a casa mia? Impossibile.
Affretto il passo. La folla sembra aprirmi il passaggio, sento su di me migliaia di sguardi. Nella foga mi scordo completamente del biancospino alle mie mani.
Chi sei?
Mi fermo allo stipite della camera ardente. Osservo i presenti: Papà, mamma, mia sorella, i miei zii, prozii e miei cugini. Non manca nessuno. Mi sento assicurato. Chi può essere? Un parente lontano o forse meno. Mi dirigo verso la bara.
Odo mia madre chiamarmi, lamentosa.
-Oh figlio, perché? Un ritorno che mi strazia… –
-Mamma…- trovo la forza di dire.
Allungo le mani verso di lei. Le appoggio sul viso rigato dalle lacrime. Sento il calore del sangue, pulsare incessante. Lei chiude gli occhi. Ritraggo le mani.
Mi avvicino alla bara.
Ecco, distinguo un viso pallido. Un bambino appena diventato uomo. Una corona di riccioli gli ricade sulla fronte. L’espressione è seria, le braccia incrociate. Lo riconosco.
Il mio orrore è grande.
Barcollo, sento la testa fischiare, mi accorgo che il biancospino è sparito tra le mie mani.
Così Giovane, così giovane. Perché? Perché?
La gioia dei figli, di una donna. Dove saranno per questo sventurato?
Un’intensa emicrania mi attanaglia, un formicolio mi attraversa tutto. Migliaia di lance infilate in petto.
Il dolore aumenta. Vedo lampi di luce accecanti.
Non è un infarto, non è un ictus, né aneurisma, né commozione cerebrale, né glaucoma.
Semplicemente, sono morto.
Quel ‘qualcuno’ nella bara, sono io.