di Lorenzo Mineo
Tra i quattro referendum nazionali che i cittadini italiani sono chiamati a votare il 12 e il 13 di Giugno, due di essi sono legati al tema della gestione dell’acqua. Si tratta dell’abrogazione dell’art. 23 bis della Legge n.133/2008, che prevede la privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica nel settore idrico, e dell’abrogazione dell’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006, che prevede una disposizione della tariffa per il servizio idrico determinata secondo l’“adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, norma che permetterebbe al gestore del servizio idrico di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% senza collegamento a reinvestimenti per il miglioramento del servizio, consentendo quindi che le tariffe dell’acqua aumentino arbitrariamente, giustificandole con investimenti.
In sostanza, se il quorum del referendum verrà raggiunto, e a votare andrà almeno il 50% più uno degli italiani, l’espressione di voto potrà determinare se concedere o meno la gestione dell’acqua ai privati. Ma che cosa si intende per “privatizzazione dell’acqua”?
Chi nei fatti la sostiene, nella forma lessicale sembra distaccarsi da questa terminologia, preferendole gli eufemismi di “gestione privata dell’acqua” o “liberalizzazione dei servizi idrici”. La legge sancisce, infatti, la “proprietà pubblica dell’acqua” che l’art. 23 bis della Legge n.133/2008 non mette in discussione da un punto di vita giuridico; si parla allora di “privatizzazione dell’acqua” se si considera come effettivo proprietario chi ne gestisce il servizio, cioè chi fa arrivare materialmente l’acqua ai rubinetti delle nostre case, ruolo che, con questa legge, spetterebbe appunto ai privati.
Certo è che l’opzione di privatizzare l’acqua è frutto di una concezione che si ha di essa come di business: le multinazionali non hanno infatti alcun interesse a promuovere risparmi o evitare sprechi di acqua, mosse dall’esclusivo fine di fare profitto, che sarà tanto più alto quanto più alto sarà il consumo, e, non dovessero alzarsi i consumi di acqua, ad alzarsi sarebbero i prezzi delle bollette dei consumatori. Se dunque, in nome del profitto, si arriva a privatizzare il bene comune per antonomasia, qual è l’acqua, che attiene alle vite umane in senso così radicale, questo è un ulteriore passo verso la sottomissione del potere politico a quello economico, un ulteriore passo verso la morte della già mal ridotta democrazia: la battaglia per l’acqua pubblica diventa allora battaglia a salvaguardia della democrazia.
Piuttosto, se si accetta la concezione dell’acqua come business, se si realizza che è effettivamente lecito trarre da essa profitti, siano enti pubblici a trarne, e che i guadagni nel settore idrico possano essere reinvestiti nel sociale.
Il 12 e il 13 giugno è fondamentale la propria scelta di voto perché finalmente, dopo sedici anni di mancati quorum, l’espressione popolare possa tornare decisiva. E’ responsabilità di ogni cittadino italiano conoscere di cosa si sta parlando. E votare vuol dire riappropriarsi del senso più puro dell’etichetta di “cittadino”, vuol dire scegliere di interessarsi in prima persona della cosa pubblica.