di Giovanni Fantini
Adesso che abbiamo compianto i quattro Alpini morti tre giorni fa in un attentato organizzato dai soliti Talebani, possiamo riattivare il cervello e iniziare a ragionare su questa missione di pace.
Possiamo veramente parlare di missione di pace? Sarebbe più corretto parlare di mission of peace enforcement, cioè una missione volta a instaurare la pace attraverso la forza, che, mi spiace dirlo, equivale a dire guerra. Ci tocca sopportare il dolore almeno fino a luglio 2011, data prevista da Obama, Frattini e gli alleati in generale per il ritiro delle truppe. D’altra parte, sopportare il dolore è il minimo. Noi siamo lì per garantire pace e libertà a un popolo afflitto dalla morte e dalla dittatura, mica per il petrolio! Siamo lì per garantire pace e democrazia con fucili in spalla, ad un popolo che, probabilmente, se ne infischia della democrazia in Occidente se sotto i loro occhi continuano ad aumentare le vittime tra civili, donne e bambini.
Questi lutti, mi spiace dirlo, saranno sempre più frequenti fin quando non ci sarà il ritiro delle truppe. I talebani non molleranno. Ormai controllano il 75% del territorio, nonostante si sia cercato di dare un segnale di stabilità con le elezioni – sebbene il 25% delle schede fosse falsato. Proprio per questo motivo i Talebani uccideranno sempre di più pur di fermare questo processo di stabilizzazione che a loro non va proprio giù. Questa “missione di pace” mi puzza troppo di già visto. L’Occidente si deve convincere che ci sono alcune guerre che non si possono vincere.
Non c’è bisogno di arrivare fino in Afghanistan per piangere delle vite umane, guardiamo in casa nostra: seicento persone che muoiono abbandonate su gommoni in mezzo al mare. Siamo noi i Talebani in questa vicenda, anche se non usiamo le bombe.
Piangiamo perché una vita umana è uguale in ogni parte del mondo, quindi non dovremmo avere come misura del dolore la qualità. Da tempo, ormai, ogni volta che apro il giornale provo questo dispiacere. Viviamo in un mondo pieno di dolore, che non cambia a seconda delle vittime: non esistono qualità del dolore.
Il dolore genera odio, che a sua volta finisce per ferire provocando altro dolore, e così via. E’ una catena che dura da secoli, che finisce per provocare guerre su guerre. Comprensione e razionalità dovrebbero aiutarci a capire come uscire da questa catena d’odio: il dolore che proviamo per i nostri soldati è uguale al dolore che provano le famiglie dei civili afghani che muoiono in quegli stessi attentati, che è lo stesso dolore dei familiari di quegli immigrati che lasciamo barbaramente morire in mezzo al mare, che è lo stesso dolore che prova ogni altra vittima nel mondo.
La mancanza di empatia, cioè l’incapacità di comprendere gli altri, è, secondo uno psichiatra che ha analizzato le menti dei nazisti criminali contro l’umanità, il principale male del mondo, la causa di tutto il dolore. Per questo, trovo inaccettabile fermare il mondo, i giornali, creare inutili gruppi su facebook per i sei soldati uccisi “solo” perché parlavano la nostra stessa lingua, mentre non si piange neanche una lacrima per altre migliaia di innocenti solo perché questi sono considerati “diversi”.
Ormai ho imparato a controllare il dolore che sento ogni giorno, e ho imparato a non convertirlo in odio verso altre persone. Credo che tutti noi dovremmo imparare a farlo.