di Ilaria Giugni
Da bambini ci insegnano che esistono i buoni e i cattivi, regna sovrana l’approssimazione ed è molto facile discernere. Crescendo, gli eventi ci dimostrano che la divisione non è così netta, che non si può far affidamento sull’appartenenza ad un blocco, ad una categoria.
Dieci anni fa, durante il G8 a Genova, la condotta indicibile di alcuni rappresentanti della forza pubblica ci ha dimostrato che neanche la divisa è necessariamente garanzia di rispetto delle regole.
Il 21 luglio 2001, la scuola Diaz, che ospitava 93 manifestanti, veniva letteralmente presa d’assalto dalla polizia. Fra quelle pareti i buoni hanno picchiato duro, con rabbia e rancore immotivati.
E’ impossibile non rimanere impressionati dalla lettura dei referti medici dei feriti della scuola Diaz: evocano pestaggi feroci, utilizzo improprio di armi come gli sfollagente, accanimento su soggetti inermi.
Melanie Jonasch, all’epoca ventotto anni, rimase in coma quarantotto ore a seguito delle percosse subite. Fu la vista del suo corpo rannicchiato, dei grumi di sangue che giacevano intorno alla sua testa, a far gridare “Basta!” a Michelangelo Fournier, capo del VII nucleo sperimentale del I reparto mobile di Roma, che definì poi quello che era successo alla Diaz “una macelleria messicana”.
A Genova la Polizia di Stato si è macchiata di un atto più ignominioso della violenza: la falsificazione. Addotto a motivo del blitz alla Diaz fu la presunta presenza di un nucleo di Black Block all’interno della scuola, provata dal ritrovamento di bottiglie molotov, pronte ad esplodere contro le forze dell’ordine, sbandierate così le intenzioni violente dei manifestanti.
Purtroppo gli ordigni sono stati, in realtà, reperiti in un’aiuola di Corso Italia e non all’interno dell’edificio, che una delle bottiglie di vetro mostri una strana etichetta dedicata ad un raduno degli alpini.
Inquietante è anche quanto è successo alla caserma di Bolzaneto, dove alcuni manifestanti sono stati trattenuti senza conoscere i propri capi d’imputazione, senza poter contattare avvocati o familiari.
All’interno di una roccaforte dello Stato sono state perpetrate sevizie terribili e vili: costretti a rimanere in piedi per ore, i manifestanti sono stati ingiuriati per il loro credo politico e religioso, picchiati, costretti a declamare “Viva il Duce!”, minacciati di violenze sessuali e continuamente sottoposti a torture psicologiche.
B.A, all’epoca vent’anni, racconta che le venne gridato “Entreremo nella cella e dipingeremo i muri con i nostri manganelli dello stesso colore della vostra bandiera”.
S.A.P, diciassette anni, viene costretto con la violenza a eseguire flessioni nudo, mentre un agente lo tiene per i capelli facendolo andare su e giù, al ritmo di “Uno, due, tre, viva Pinochet” e “Mussolini olè” (“L’eclisse della democrazia”- Agnoletto, Guadagnucci- Feltrinelli).
Oggi ricorre il decimo anniversario dalla morte di Carlo Giuliani, ventitreenne ucciso da un proiettile dell’Arma a piazza Alimonda. Come non ricordare l’intercettazione fra due poliziotti all’indomani dalla sua morte.
R: “Ma guarda che io dalle sette di ieri e di oggi sono stato in servizio fino alle undici, quindi ho visto tutti ‘sti balordi, queste zecche del cazzo…comunque…”
CO: “Speriamo che muoiano tutti!”
R:”Eh,eh,eh! Simpatica, simpatica…”
CO: “Amica amica, tanto uno già..va be’, e gli altri…uno a zero per noi, eh!”
Quanto avvenuto a Genova dieci anni fa è una pagina terribile della storia d’Italia, una macchia indelebile sull’operato delle forze dell’ordine e soprattutto una ferita che non si rimargina. Un decennio e nessuno dei manifestanti ha dimenticato cosa ha subito da parte dei buoni, la vita di ciascuno è cambiata irrimediabilmente. Anche chi non c’era, chi era troppo giovane per ricordare non può non rabbrividire, farsi delle domande. Oramai non si tratta solo di dissociarsi, stabilire le colpe: fare giustizia è certamente fondamentale, ma la questione più spinosa è ricucire lo strappo fra la società civile, lo Stato e i suoi rappresentanti.
Senza voler disonorare i carabinieri e i poliziotti che tutti i giorni compiono il loro dovere, bisogna provare a capire cosa è successo in quei giorni, cosa ha spinto uomini che avevano giurato fedeltà ai principi democratici dello stato italiano a calpestarli. Occorre smettere di punire coloro che si sono macchiati di quei crimini con delle promozioni. Occorrerebbe, invece, espellerli, perché prima di tutto hanno infangato lo Stato e la divisa che portano. Se questo non dovesse avvenire, se a Genova non dovesse esser fatta giustizia, non dovremo esitare a dire che come paese democratico abbiamo fallito.
I buoni avranno vinto. Peccato che la vittoria non avrà il sapore che da bambini abbiamo immaginato.