di Gianmarco Botti
Una bomba esplode in pieno centro ad Oslo, spargendo sangue e terrore. Poche ore dopo sull’isola di Utoeya, a 30 chilometri dalla capitale, si consuma una vera e propria mattanza di giovani, la cui unica colpa è quella di essere lì convenuti per un meeting del partito laburista. Panico e morte fanno il loro ingresso laddove regnavano serenità e sicurezza, scuotono un mondo che si sentiva al riparo dalle minacce del crimine e del terrorismo che incombono sull’Occidente. Per la prima volta nella tranquilla e ridente Norvegia che nell’immaginario comune costituisce un vero e proprio paradiso del progresso e dello sviluppo civile, un Paese dove la polizia gira disarmata e dove non è prevista la pena d’ergastolo neppure per i crimini più efferati, a farla da protagonista è la violenza, la follia, il male. Una violenza cieca, che colpisce senza fermarsi neppure davanti alle mani giunte di un ragazzo che implora di essere risparmiato; una follia che affonda le sue radici in un mix di disagio psichico e deliranti ideologie neonaziste che vedono nella diversità, nella società aperta e multiculturale il nemico da abbattere; il male. Già, il male. Fa sempre impressione il male quando la sua ombra terrificante si materializza sulla scena della storia. Il male, che nessuna filosofia, struttura politica o strategia sociale è mai riuscita a sconfiggere definitivamente e mai ci riuscirà, semplicemente perché non si sa neppure da dove cominciarla, la battaglia contro il male. Anzi, a dirla tutta, non si sa neanche cosa sia realmente il male. Filosofie, religioni, visioni del mondo di ogni genere hanno identificato in esso quasi una forza primigenia, qualcosa con cui l’essere umano deve fare i conti dall’inizio alla fine della sua storia, che egli trova dentro di sé e attorno a sé in ogni momento della sua vita. Eppure, tutte hanno una certa difficoltà a definirlo, a dargli un volto, preferendo spesso descriverlo semplicemente come privazione di bene, contrario del positivo, mancanza di essere. Così i Neoplatonici e Plotino in testa, che nella sua rappresentazione della mistica ascesa dell’anima dalla molteplicità materiale all’Uno, “Sommo Bene”, considera “male” non già la materia in sé, quanto piuttosto il rifiuto dell’anima di staccarsi da essa per percorrere il suo cammino di ricongiungimento all’Uno; allo stesso modo i primi pensatori cristiani e particolarmente Agostino pongono l’accento sulla non-realtà del male, negando che esso risieda nei beni inferiori (corpo, bellezza, ricchezza) e riferendolo bensì alla libera volontà dell’uomo che preferisce questi ultimi ai beni superiori, alle virtù etiche e a Dio; ancora nel XX secolo, un erede dell’Idealismo, che semplificando potremmo definire come una filosofia “ottimistica”, qual è il nostro Benedetto Croce, definirà il male e tutto ciò che di negativo vi è nella storia umana come nient’altro che “il bene considerato dal punto di vista del meglio”. Ecco dunque che anche il pensiero barcolla di fronte allo “scandalo del male”, uno scandalo, appunto, perché sfugge ad ogni pretesa di classificazione, ad ogni tentativo di razionalizzazione semplicemente per il fatto che il male non è affatto razionale. Lo sosteneva in qualche modo già Socrate quando, affermando che una volta che si è compreso quale sia il giusto e il bene autentico non si possa poi non compierlo, stabiliva una vera e propria equivalenza fra male e ignoranza, anzi, faceva del male niente più che un errore di valutazione, ignoranza del bene che ce lo fa scambiare con ciò che bene non è. E l’irrazionalità del male trova conferma ogni qual volta viene portata a compimento un’impresa scellerata come quella del norvegese Anders Behring Breivik, laddove quel misterioso campo d’indagine della psicologia e della filosofia che è la follia (“La vita umana nel suo insieme non è che un gioco, il gioco della pazzia”, diceva Erasmo da Rotterdam) entra in contatto con l’inquietante galassia delle ideologie della non-ragione: intolleranza, estremismo, xenofobia sono il parto naturale dell’insano connubio di male e follia, di quel male che è sempre follia e di quella follia che molto spesso arma le mani del male offrendogli gli strumenti per colpire.
Con tutto ciò la domanda sul male resta ancora inevasa, quello che i cristiani chiamano “mysterium iniquitatis” rimane appunto “mysterium” e forse così deve essere. Ma la voce di Agostino risuona attraverso i secoli: “Unde malum?”, da dove viene il male? e quindi in definitiva: che cos’è? Questo l’uomo non riesce a smettere di chiederselo, nonostante tutti i suoi tentativi di ingabbiare il fenomeno male in rassicuranti schemi concettuali siano andati incontro ad un misero fallimento. L’eterna domanda risorge ogni volta che egli sperimenta la presenza del male nella propria vita e la sua ricerca non trova appagamento nelle tradizionali spiegazioni dei filosofi – il male è mancanza di bene, il male è solo nella nostra volontà che non sa scegliere ciò che dovrebbe, il male non è poi così male, ma appare tale solo perché lo guardiamo da un punto di vista migliore. Molto più soddisfacente per la sensibilità dell’uomo contemporaneo, eppure per certi versi in linea con quelle antiche teorie il cui fondamento comune era sostanzialmente l’idea della non-realtà del male, appare la proposta interpretativa avanzata dalla filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt in un testo il cui titolo dice già molto: “La banalità del male”. Adolf Eichmann, gerarca nazista, grande organizzatore del trasporto degli ebrei nei campi di concentramento, poi processato e condannato a morte in Israele, è il protagonista ideale dell’opera della Arendt, il cui sottotitolo è appunto “Eichmann a Gerusalemme”: nella sua “normalità” e “ordinarietà” egli è il paradigma vivente di quel male che mai si è rivelato così sfacciatamente banale come nell’esperienza della Germania hitleriana, dove la stragrande maggioranza degli individui si rese corresponsabile di quel “male assoluto” che è stata la Shoah senza comprendere la portata delle proprie azioni.
È questo un dato decisamente inquietante, con il quale però bisogna fare i conti. Chiunque in Germania poteva essere Eichmann e anche oggi chiunque può esserlo ancora: non un mostro “inumano”, ma un uomo qualunque, che alle domande rivoltegli dai suoi accusatori sul perché delle proprie azioni, risponde di aver agito soltanto in obbedienza ad ordini superiori. Lui si preoccupa soltanto che i treni arrivino in orario, quale sia il loro carico, poi, non è affar suo. Egli non è nulla più che un ingranaggio nella mostruosa, quella sì, macchina del potere criminale nazista. È questo il male. Male è il folle piano degli ideologi della razza pura e dei teorici della “soluzione finale”; la banalità consiste nel modo in cui esso assoggetta “onesti padri di famiglia” al suo scopo, facendone strumenti inconsapevoli di qualcosa che è molto più grande di loro, nulla più che semplici “funzionari delle fabbriche della morte”. In maniera simile, il male che prende atrocemente corpo nell’esplosione di Oslo e negli spari forsennati di un folle contro decine di giovani inermi non è altro che quello che si annida nelle sordide ideologie dell’odio e della discriminazione, lo stesso che traspare dalle parole con cui un nostro europarlamentare ha voluto far sapere che le idee di Breivik sono “profondamente sane” e “ormai patrimonio comune degli europei”. Rispetto a tutto questo il dito di uno psicopatico pigiato sul grilletto sembrerà di una banalità estrema. Come si sconfigge, dunque, questo male così tremendamente banale? Secondo la Arendt, è sufficiente pensare, vigilare in piena coscienza sul proprio agire: è così che non si diventa Eichmann, è così che neppure Eichmann sarebbe stato Eichmann e che forse non ci sarebbe stato neppure Auschwitz…
“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso sfida […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale”. Reagire al male con il bene è una vecchia massima cristiana, nata in realtà ancora prima in Grecia con la nonviolenza socratica. Ma è proprio questa la strada maestra che la Norvegia intende seguire per risollevarsi dallo shock di Oslo e Utoeya, secondo le parole del premier Stoltenberg: “Al male reagiremo con più democrazia e umanità”.
La tempesta è capace di disperdere i fiori, ma non è in grado di danneggiare i semi.
(Kahlil Gibran)
Dedicato ai giovani di Utoeya