di Roberto P. Ormanni
Se n’è andato improvvisamente. La notizia della sua morte ha quasi la stessa potenza di uno dei suoi reportage. Giuseppe D’Avanzo non c’è più. E il giornalismo italiano, oggi, non può che soffrire e piangere la scomparsa della penna rigorosa e acuta di un cronista che ha scritto e descritto i fatti, servendo sempre, a schiena dritta, la verità.
Peppe D’Avanzo (come lo chiamavano tutti), classe ’53, cresciuto a Napoli nel convitto Vittorio Emanuele a piazza Dante, ha sempre cercato e indagato per poter raccontare. Passato per la scuola di Ennio Simeone, mosse i primi passi nella redazione di “Paese Sera”, parlando di economia e sindacato e seguendo la cronaca napoletana.
La vera marcia in più, però, la sua molla irrefrenabile, era la volontà di smascherare ogni illegalità, di illuminare ogni zona d’ombra.
La sua ricerca libera di verità era instancabile. Forse proprio questa lo portò ad essere arrestato nel 1985 per la fuga di notizie sull’inchiesta riguardante la strage del treno 904 consumatasi l’anno prima, dove vennero coinvolti, in un intreccio politico-criminale, nomi di primo piano come quello dell’esponente dell’estrema destra, Massimo Abatangelo, e il camorrista Giuseppe Misso, del clan omonimo.
In quell’occasione, il pm Pierluigi Vigna fece trascorrere a D’Avanzo Natale e Capodanno nel carcele di Carinola, perchè accusato di non voler rendere noto il nome della sua fonte.
Eppure, fu proprio questa vicenda a garantire al giornalista (precario fino a quel momento) l’assunzione decisiva a Roma, nella redazione di “Repubblica”.
Con il quotidiano fondato da Scalfari, infatti, D’Avanzo collaborò praticamente sempre (tranne una parentesi al “Corriere della Sera”), firmando, tra quelle pagine, celebri inchieste: dalla mafia (sua l’intervista, a quattro mani con Scalfari, a Tommaso Buscetta) al terrorismo (in collaborazione con il collega e amico Attilio Bolzoni, pubblicò “Il mercato della paura. La guerra fredda al terrorismo islamico nel grande inganno italiano”), fino alle questioni controverse di politica estera (come il Nigergate o il rapimento di Abu Omar).
Voleva arrivare ovunque, con l’occhio e con l’orecchio, in qualunque modo, per scrivere e raccontare. Da Nord a Sud, da Milano a Corleone, da Napoli a New York.
E’ sempre riuscito a vedere lontano, Peppe D’Avanzo.
In un suo articolo, titolato “Quell’affare di mafia e mattoni”, per esempio, egli denunciò i rapporti poco limpidi tra politica, imprenditoria e malaffare nella Milano di Berlusconi e Dell’Utri. Era il marzo 1994: l’Italia non immaginava neanche lontanamente chi fosse il Cavaliere di Milano 2 e di Mediaset.
Tre le righe recenti, le più sono legate all’impegno di chiarire la corruzione politica odierna e smontare l’arroganza del potere: dallo scandalo escort-Tarantini alla storia di Ruby Rubacuori, passando per le vicende della minorenne Noemi Letizia, fino ad arrivare alle dieci domande poste al premier Silvio Berlusconi dalle colonne di “Repubblica Napoli”.
Tante le parole di dispiacere da parte dell’opinione pubblica per la scomparsa del giornalista. Eppure, probabilmente, il ricordo più sincero è lasciato dai suoi colleghi. “Molto semplicemente – dice il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro – Beppe era il migliore di noi. D’Avanzo era giornalismo allo stato puro, sempre al servizio della verità. Credo che sarà difficile per tutti noi capire l’Italia senza la sua telefonata del mattino. Ma lo faremo in suo onore e per continuare il suo impegno”.