di Roberto P. Ormanni
Dieci anni. Dieci anni dividono il presente dal ricordo di una ferita: la ferita apertasi nella storia dell’Occidente. Dieci anni segnano la distanza da quella crepa tracciata dal terrorismo nella libertà della democrazia. Dieci anni. Dieci anni da quell’11 Settembre, dieci anni dal colpo al cuore dell’America, dieci anni dalla distruzione del World Trade Center. Dieci anni.
Dieci anni che il mondo conserva negli occhi e nella memoria le immagini della devastazione. Una devastazione reale, vera e non cinematografica. Dieci anni che il mondo piange e che ricorda come tutto ebbe inizio: le guerre, le violenze, le invasioni, Al Qaeda, gli attentati, la crisi economica, Afghanistan, Iraq, Bush, Bin Laden, Saddam. Tutto è in quelle due torri, tutto è in quei quattro aerei dirottati, tutto è in quelle 3.000 vittime. Tutto parte da lì.
Eppure, spesso, in dieci anni di dolore, si è abituati ricordare la strage, l’apocalisse vissuta dal mondo, come qualcosa di etereo. Le Twin Towers che crollano come costruzioni troppo fragili, le nuvole di polvere che si alzano sopra Manhattan, le squadre di soccorso che si muovono tra le macerie come fantasmi in un deserto, sembrano oggi fotogrammi di una pellicola conosciuta, a cui siamo assuefatti fin dal primo momento.
Troppe volte, in dieci anni di riflessioni, si è perso il contatto con le sensazioni degli individui. Individui reali, protagonisti autentici e fisici di quell’11 Settembre.
La cronaca di simulacro offerta da giornali e TV è stata probabilmente complice inconsapevole e inevitabile di questo fenomeno. Anche le testimonianze dei sopravvissuti, raccolte in prima persona dai postini dell’informazione, parevano essere parte di una scena grondante di sangue ma priva di sensi.
Probabilmente, però, tra i numerosi editoriali e tra le abbondanti opinioni, esiste un’opera che è riuscita, più di tutte le altre, a restituire a pieno la dignità ai volti e agli animi dell’11 Settembre: la costruzione musicale e narrativa fatta da Bruce Springsteen nell’album “The Rising”, pubblicato nel 2002, infatti, rappresenta ad oggi la descrizione più spontanea ed umana della strage di dieci anni fa.
Springsteen, nei suoi versi, non disegnò la sciagura abbattutasi sulla civiltà, non parlò di “patriottismo” né di “perdita dell’innocenza”. Piuttosto, il cantautore americano ebbe la capacità di parlare del disastro subito dai singoli individui durante l’imporsi prepotente della Storia.
Springsteen cantò dei pompieri che intervennero nel World Trade Center (“Su per le scale, dentro il fuoco: ho bisogno del tuo bacio, ma l’amore e il dovere ti hanno chiamato in qualche posto più in alto”), dello strazio di ogni famiglia spezzata (“Troppo spazio nel mio letto, troppe telefonate….I bambini stanno chiedendo se tutto va bene: tornerai tra le nostre braccia stanotte?”). L’autore provò persino a entrare, con umanità, nella testa di un kamikaze prima del suo gesto finale (“Vado alla deriva da una faccia all’altra, trattengo il respiro, chiudo gli occhi e aspetto il Paradiso): prospettiva che, per ovvi motivi di gioco delle parti, naturalmente, non è mai stata presa in considerazione da nessuno.
Dieci anni che l’America prova a non soffrire per una ferita troppo profonda anche per cicatrizzarsi. La tragedia resta lì, nascosta tra le stelle e le strisce, tra le macerie ed il cielo.
Il punto è che le tragedie colpiscono prima le persone e dopo le nazioni. Nella realtà quotidiana, la devastazione, qualunque essa sia, resta sullo sfondo, sempre. E’ il dolore ad entrare nella vita delle persone. Il dolore, e basta. Ed è quel dolore che oggi, dopo dieci anni, dovremmo provare a sentire. E a ricordare.