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Almodòvar incanta: il nuovo film tra poesia tragica e passione toccante

di Marco Chiappetta

TRAMA: Toledo – Dopo aver perso la moglie – carbonizzata in un incidente stradale – e la figlia (Blanca Suàrez) – suicidatasi dopo una violenza sessuale –, il chirurgo plastico Robert Ledgard (Antonio Banderas) si rinchiude nella sua villa, solo con la governante e a sua insaputa madre Marilia (Marisa Paredes), a sperimentare in laboratorio un nuovo tipo di pelle artificiale su una cavia umana che diventa la sua creatura: Vera (Elena Anaya), donna bellissima e sensuale, identica alla sua amata moglie, che dentro un corpo perfetto nasconde un segreto scandaloso e un passato tragico.
GIUDIZIO: Tratto dal romanzo “Tarantula” di Thierry Jocquet, rivisitato e adattato con grande libertà, il diciottesimo film di Pedro Almodòvar è un’altra vetta di genio, di poesia, di vero cinema, quello di cui questo enorme artista spagnolo è forse l’ultimo vate. Per un pubblico sempre più ristretto, più aperto ai suoi temi scandalosi e all’avanguardia della sua arte, il grande regista mancheco offre un’opera solo in apparenza minore, un film che solo in apparenza è un thriller psicologico con quelle venature pulp, gore, kitsch e anche un po’ splatter da facile conquista. Come tutti i capolavori, “La pelle che abito” è molto di più: oltre l’intreccio tipicamente almodovariano di vicende tragiche e personaggi passionali, brutali, folli, costruito come sempre su salti temporali e illuminanti flashback, c’è una varietà di temi, di riflessioni, di sottotracce di rara finezza. C’è la critica all’ossessione, tutta moderna, della chirurgia estetica, ma anche l’omaggio al corpo femminile, corpo di volta in volta manipolato, o creato, o torturato, o violentato, o sublimato con dolcezza nell’amore puro. C’è l’allegoria dell’arte: il chirurgo è come l’artigiano, la sua creatura un capolavoro, ma anche frutto di sacrifici e sangue, e infine un’ossessione fatale che si rivolterà contro di lui; ma anche l’arte dell’inganno, della maschera, del travestimento, del colpo di scena, degli artifici più assurdi e grotteschi, che in Almodòvar è il punto di fuga di ritratti umani sempre controversi e mai limpidi. Ci sono il mito di Prometeo, l’icona cult del dottor Frankenstein e le donne di Hitchcock (compresa quella che visse due volte), ma anche l’omaggio al cinema noir di serie A e serie B degli anni ’40, ’50, e come sempre il cinema di Almodòvar stesso, che si cita addosso, lancia frecciatine e riferimenti, genera rimandi e inception per stuzzicare il cinefilo e l’aficionado, vuole prove d’amore dal suo spettatore, ricrea scene già viste, ma poi diverse. Come Banderas pazzo di amore che accarezza sullo schermo gigante il volto della sua creatura Vera, è un po’ come il regista cieco di “Gli abbracci spezzati” che sfiora sullo schermo le immagini del suo ultimo bacio con Penélope Cruz; o il feticismo per la donna nuda e pura e inerme, come in “Parla con lei”; i giochi del destino, decisi dagli incidenti fatali e da violenze scioccanti, che cambiano corpi e menti; ci sono i fantasmi del passato e scheletri nell’armadio che riprendono vita; ci sono passioni carnali, sfrenate, tragiche, uomini che violentano le donne, e amori ossessivi che portano alla follia; c’è il sesso, onnipresente, in tutte le tinte, oltre i tabù, oltre quello che la morale consente, violento, rabbioso, come ai tempi del sublime scandalo “La mala educaciòn”; e c’è la vendetta, legata a filo stretto con la passione, in un mondo di melodramma sempre bellissimo e sempre toccante. Si potrebbe continuare fino all’infinito. Almodòvar fa film sempre diversi fuori ma uguali dentro, sempre conformi alla sua idea di vita, alla sua poetica del caso e della passione, del sangue e del cuore: ogni film un tassello magnifico in un mosaico dolente, meraviglioso e straziante. “La pelle che abito” non si discosta, ed è un bene, dalla migliore verve del regista. Tra i tanti ingredienti, tipici del suo cinema, gli attori bravissimi (col gran ritorno di Banderas, ventun anni dopo “Legami!”), la fotografia di Josè Luis Alcaine coi suoi colori e le sue luci, e la stupenda colonna sonora di Alberto Iglesias. Che manca a questo film? Un pubblico unanime che lo esalti per il capolavoro che è. Ma dopotutto non è una grave mancanza.
VOTO: 4/5