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Sorrentino disegna una caricatura estrema del declino esistenziale, fuori misura ma con mestiere

di Marco Chiappetta

TRAMA: Cheyenne (Sean Penn), ex rockstar in declino esistenziale, professionale e mentale, consumatosi in vita oziosa a Dublino, parte per gli Stati Uniti per il funerale del padre ebreo e per vendicargli l’antica umiliazione di un nazista ad Auschwitz. Alla ricerca del criminale, nell’enorme, sconfinata e alienante America, Cheyenne finisce per ritrovare soprattutto se stesso, attraverso una serie di incontri ed esperienze che lo illuminano sul senso del suo fallimento e della sua solitudine.
GIUDIZIO: Il quinto film di Paolo Sorrentino, il primo in lingua inglese, conferma ancora una volta quanto originale, intelligente, virtuoso sia il suo stile: il problema è che, nonostante le attese e il plauso di Cannes, conferma solo questo. Il film segue per ellissi il percorso prima autodistruttivo poi ascetico di un protagonista borderline e reietto dentro, come già a loro tempo “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia”, riducendo la storia a un susseguirsi di situazioni, scene, incontri, esperienze, da diario interiore: spesso il realismo si mescola al grottesco, tutto è molto esagerato, gratuito, fine a se stesso. Poco male visto che quest’opera pop, piena di musica e di inquadrature da grande cinema, si costruisce proprio sul paradosso e sull’eccesso: come il personaggio di Sean Penn, caricaturato all’estremo, macchiettistico, truccato alla Robert Smith e anche più decadente, che agisce e parla senza senso compiuto, con voce stanca e lacrimosa, o con un sorriso suadente, sempre all’insegna di un cinismo rassegnato e del classico nichilismo di chi ha perso tutto e non ha più nulla da perdere. Ma, fosse anche solo per la ricchezza inventiva della regia e per la bella fotografia di Luca Bigazzi, più che per il fascino dell’ennesimo road-movie con la redenzione alla fine del sentiero, il film si lascia guardare con piacere: le esagerazioni sono accettate, l’ironia e la malinconia sono al loro posto, l’America è il solito yin e yang. Eppure manca qualcosa, e se alla fine il viaggio interiore del protagonista è compiuto e concluso, non lo è il film: troppi personaggi, troppe storie nella storia, troppa forma, troppo troppo, in pieno stile Sorrentino. Chapeau per la colonna sonora di David Byrne (che compare in un cameo nel ruolo di se stesso, ed è l’autore, coi Talking Heads, della canzone che dà il titolo al film) che si aggiunge a un’ineccepibile scelta di brani di repertorio.
VOTO: 3/5