di Ilaria Giugni
Bufera in Parlamento a seguito della dichiarazione del ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, in materia di normativa anti-infiltrazione mafiosa negli appalti e nei servizi pubblici. Il ministro della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione ha sbottato: “Basta certificati antimafia, basta Durc (Documento Unico di Regolarità Contributiva ndr) e basta pacchi di documenti per partecipare ai concorsi”.
Brunetta ha prospettato una modifica alla legge Rognoni-La Torre, introdotta a seguito dell’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e macchiata poi con il sangue di Pio La Torre, sindacalista trucidato da Cosa Nostra a Palermo nel 1892.
La tesi a sostegno della proposta consiste nella presunta necessità di sveltire le pratiche e di ridurre la burocrazia. Una tale innovazione, però, secondo gli addetti ai lavori, finirebbe per spianare la strada all’infiltrazione mafiosa e per strozzare gli imprenditori onesti.
Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, ha commentato: “Il certificato antimafia dovrebbe essere come un marchio di qualità per le imprese. Bisognerebbe addirittura premiare chi è già in possesso di tutta la documentazione, altro che ridurre l’ambito di applicazione”.
In questo caso, far prevalere il senso pratico sul buon senso equivarrebbe ad essere ciechi. Il Sud e l’intera nazione sono soffocati dalla criminalità organizzata, ma sembra che a chi di dovere non importi: in passato si pretendeva almeno che i mafiosi occultassero le loro pratiche, oggi si è disposti a tollerare il malaffare se genera profitto, come se legalità e trasparenza fossero parole ormai prive di significato.
Troppe volte nel nostro Paese si è finiti con il favorire i disonesti in nome della semplificazione e della convenienza. Per questo motivo, solo in Italia non risulta paradossale che sia un ministro del governo – che si è sempre fregiato di avere nel mirino la mafia – ad avanzare questa proposta.