di Ilaria Giugni
Al via ieri “Sbarre”, programma con cui Fabrizio Moro debutta nella seconda serata di Rai2. Ogni mercoledì alle 23.40 appuntamento all’interno del carcere di Rebibbia, Roma. L’obiettivo non è raccontare la condizione delle carceri italiane, denunciare i limiti del sistema carcerario, o almeno non direttamente. Il cantautore si occupa di raccontare le storie di detenuti sfuggiti al circo mediatico, che sullo schermo non appaiono tanto diversi da noi.
La difficoltà, nei programmi che s’insinuano in realtà normalmente interdette ai non adetti ai lavori, è riuscire a capire se le descrivono davvero o se la mediazione della telecamere finisce per alterare la verità. Neanche “Sbarre” fa eccezione, ma commuove e colpisce il telespettatore.
Ieri sera Alberto, condannato per spaccio a due anni da scontare nella comunità Jonathan, ha incontrato Giovanni D’Ursi, fine pena 2025 per l’omicidio di Nello Caprantini, barista romano inseguito e ucciso a colpi di pistola la notte del 9 febbraio 2003, in via della Magliana, dopo una rissa scoppiata davanti alla discoteca.
Due mondi diversi a contatto: Alberto, diciotto anni compiuti in comunità, nato e cresciuto a Scampia, Giovanni, papà, una vita violenta vissuta con un rolex al polso correndo su un’auto veloce.
Le telecamere registrano, apparentemente senza disturbare, la conversazione fra i due. Alberto sta costruendo il suo futuro, cercando di dimenticare il passato e la paura che ha del domani. La giornata a Rebibbia è senza dubbio un altro importante mattone.
Giovanni racconta la sua redenzione, a partire dall’incontro provvidenziale con zio Cosimo, ergastolano compagno di cella, e con la cultura.
Fa una certa emozione sentir parlare un detenuto di Edmond Dantes e de “I miserabili”, sentir designare Tiziano Terzani come il suo salvatore.
Sarà per questo che, a prescindere dalla sua piena aderenza al vero, “Sbarre” rimane un programma valido: Moro, raccontando i percorsi di riscatto dei carcerati, batte su due temi fondamentali, ovvero la funzione rieducativa della pena e il ruolo primario che la cultura ha in tale processo.