di Riccardo Pulcini
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, soleva dire a suo tempo che “quando non c’è energia non c’è colore, non c’è forma, non c’è vita”. Ciò che spinse il pittore italiano a pronunciare una tal frase, è lo stesso elemento che lo rese grande, fulgente ed immenso agli occhi degli dei dell’Arte: la sua follia. Perché la follia, infondo, è energia. Canalizzata forse entro ambiti sbagliati può esser nociva, se non addirittura letale, talvolta. Ma la follia, al servizio dell’Arte, è grandezza. Secondando quanto detto, potrebbe tranquillamente essere modificata la frase del Merisi in questa maniera: “Quando non c’è follia non c’è colore, non c’è forma, non c’è vita.” La sostanza, e nondimeno la potenza del significato della frase stessa, rimarrebbero entrambe intatte. E dev’essere stata la medesima energia ad aver attratto la mente e lo spirito nobile di Jusepe, o Josè, de Ribera, che il Mondo dell’Arte ricorda come lo Spagnoletto. In questi giorni va svolgendosi un’esposizione di 43 dipinti del pittore di Jàtiva – nei paraggi di Valencia – tra le sale del Museo di Capodimonte a Napoli. I numerosi dipinti, che appartengono tutti al periodo che va dal 1608 al 1624, offrono con naturalezza all’osservatore, l’evidente capacità di Ribera di cogliere gli aspetti del reale, di dare un colore alle emozioni, di rappresentare volti che sembrano quelli di una foto scattata con la macchina fotografica. Verista, realista, naturalista, gli aggettivi per descrivere questa sua peculiarità nel dipingere sono numerosi e gli si addicono in maniera giusta e sincera. Come spesso accade nella storia, e soprattutto in quel periodo post-controriforma, i soggetti dei dipinti sono in gran maggioranza di carattere religioso a testimonianza che l’Arte era al servizio di Dio – e fa strano pensare che oggigiorno siano stati entrambi gettati nel dimenticatoio. Sono dimostrazione fedele di quanto detto i vari San Pietro, San Giovanni, San Paolo e così via. Ma l’efficacia espressiva massima viene raggiunta nei quadri raffiguranti stereotipi come Il Mendicante, oppure Il Bevitore (opera questa assente nella mostra). La tecnica del chiaroscuro di Caravaggesca memoria è usata in ogni quadro, per mettere in risalto determinate sezioni del dipinto, ma si nota nondimeno una certa noncuranza per la simmetria e le proporzioni degli arti – soprattutto quelli superiori – che risultano in parte deformati. Non sfuggono ad una accorta osservazione nemmeno i memento mori di veneziana origine, che andavano di moda tra i pittori di quel periodo, e ne sono testimonianza il Guercino o Nicolas Poussin con i loro quadri raffiguranti teschi o tombe (Et in Arcadia ego, Nicolas Poussin), alla stregua dello Spagnoletto. Ribera tentò per tutta la durata della sua carriera artistica di cogliere l’eccezionalità del dipingere di Caravaggio, al quale ovviamente si ispirava, decidendo pertanto di viaggiare in Italia sin da giovane tra Roma, Parma, e Napoli. Ma ciò con cui Josè de Ribera non aveva fatto (e mai fece) i conti furono le sue origini, il suo essere spagnolo; e la sua pittura rimaneva tale, spagnola, ovvero raffigurazione perfetta, o quasi, della vita reale. La pittura del Caravaggio resta tutt’oggi invece rappresentazione imperfetta della vita reale nei suoi aspetti irreali, sovrumani. Ribera voleva assomigliare al pittore milanese senza averne la caratteristica fondamentale: l’energia. I quadri di Caravaggio sono espressione di potenza, energia estatica pura. Colgono dei movimenti della vita che sfuggono alla percezione dell’occhio. Caravaggio, dipingeva con lo spirito.
L’esposizione dei 43 quadri nelle sale del Museo di Capodimonte, mette quindi in evidenza i limiti e le doti spiccate di rappresentazione della vita reale appartenute al pittore iberico, che lo accostano in sostanza più a Velazquez e, alla lontana, a van Dyck.
La scelta di preferenza tra Josè de Ribera e il suo punto fermo, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, resta un giudizio soggettivo e personale, come tutta la grande Arte, in fin dei conti.
Ma per scegliere bene, forse, sarebbe il caso di andare a fare un salto a Capodimonte, le cui sale – e non solo quelle dedicate a Ribera – rimbombano, purtroppo, di rumori che ricordano, fin troppo, il silenzio.