Home » News, Prendiamola con Filosofia, Rubriche » L’Occidente al tramonto

L’Occidente al tramonto

di Gianmarco Botti

Per sapere che il Sole sorge ad Oriente e tramonta ad Occidente non è necessario conoscere l’etimologia latina dei termini o aver studiato astronomia. Basta guardarsi intorno. Si riconosceranno, nella crisi che ormai da tre anni tiene sotto scacco i mercati dell’Ovest industrializzato, i segni di una crisi ancora più grande, unica vera crisi “globale”: una crisi di civiltà. Se resta valido l’assunto del vecchio Karl Marx per cui alla struttura costituita dall’economia corrisponde una sovrastruttura fatta di politica, cultura e società che su di essa si fonda e da essa dipende, allora non ci possono essere dubbi a riguardo: con l’economia capitalistica così come l’abbiamo conosciuta finora crollerà lo stesso modello capitalista, crollerà il modello occidentale, con tutto ciò che a questo è collegato. Eppure, rovesciando Marx, potremmo dire che l’Occidente è molto più che una compagine economica, è ben altro che una mera definizione geografica, una formale consociazione politica: per coloro che ne fanno parte esso ha sempre rappresentato ed ancora continua a rappresentare un orizzonte spirituale, un universo di valori e cultura entro il quale ognuno comprende se stesso e il mondo che lo circonda; un Sole, alto nel cielo, fisso nella sua posizione di sempre, di cui non si può mai dubitare e che illumina costantemente il cammino di una civiltà. Ora tutto questo rischia di scomparire, come il Sole all’orizzonte quando è giunta l’ora del tramonto. È quello che Oswald Spengler chiamò, più di novant’anni fa, “il tramonto dell’Occidente”. Un destino a cui anche la più sviluppata delle civiltà e la più solida delle culture devono inesorabilmente andare incontro, alla maniera in cui anche la pianta più fiorente dovrà necessariamente appassire quando avrà esaurito la sua linfa vitale. Secondo il filosofo tedesco, una civiltà “fiorisce sulla base di un territorio delimitabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una pianta. Una cultura perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze”. Ma l’Occidente ha davvero realizzato tutte le sue possibilità, ha esaurito la sua spinta propulsiva, quella che l’ha portato ad uscire dal “grembo della spiritualità originaria”, come la chiama Spengler, per divenire un faro di progresso e sviluppo che per secoli ha illuminato il mondo intero?


Arte, scienza, economia, diritto, politica. In ciascuno di questi ambiti lo spirito occidentale ha dispiegato la sua forza creativa, dando vita ad opere, istituti, elaborazioni concettuali che sono vere e proprie pietre miliari nella storia dell’umanità. L’ha guidato in questa impresa creatrice la filosofia, vera madre di tutte le discipline e di tutti i saperi, pratici o teorici che siano. Non che l’Oriente non abbia avuto una sua importante tradizione filosofica, ma, nella diagnosi di tanti studiosi, è stato il carattere specifico della filosofia occidentale a garantire alla nostra civiltà uno sviluppo che non ha eguali nel mondo: quel culto della ragione come strumento inossidabile di indagine nelle varie sfere della vita, che si fa metodo sperimentale nelle scienze, equilibrio e misura nelle arti, democrazia in politica, calcolo e strategia razionale in economia. Fa male vedere oggi, al centro della grande crisi economica, con tutte le conseguenze di caos politico e sociale che questa si porta dietro, proprio la patria della cultura occidentale, quella di cui, volenti o nolenti, tutti facciamo parte come cittadini ideali. La Grecia in fiamme è il nostro Sole che tramonta. E anche l’Italia, che non se la passa molto meglio, grida il ricordo di un tempo in cui, mentre Atene era capitale incontrastata dello spirito, Roma lo era del potere politico ed economico. Secondo il giornalista “spengleriano” Piero Ottone, infatti, “il nostro periodo attuale corrisponde alla decadenza dell’Impero romano”. Egli si chiede, ponendoci davanti ad un dubbio inquietante: “Cina, India, Africa sono per l’Occidente di oggi ciò che i barbari furono per Roma?”. Una cosa è certa: il tramonto dell’Occidente è l’alba dell’Oriente. Lo si vede bene a tutti i livelli: sul terreno dell’economia, mentre i mercati occidentali sono vittime della speculazione e superpotenze mondiali del calibro di Stati Uniti d’America ed Unione Europea esibiscono pesanti numeri negativi ad ogni apertura di Borsa, la Cina continua a crescere a ritmo esponenziale; nel panorama della politica internazionale, la brutale uccisione del leader libico Gheddafi, nella quale è culminata quella serie di avvenimenti che va sotto il nome di “primavera araba”, viene salutata con esultanza dall’Occidente come la fine della guerra, senza che si avveda che la scomparsa dei dittatori filo-occidentali aprirà la strada al riemergere del fondamentalismo islamico, dando dunque ulteriore accelerazione alla decadenza di questa nostra sanguinante civiltà.
Abbiamo sempre avuto la sensazione di essere al centro del mondo e ora rischiamo di diventare periferia. La nostra egemonia politico-economica, ma soprattutto culturale, è rimasta indiscussa per secoli. Ma adesso le cose stanno cambiando e “il mondo che verrà” non sarà più lo stesso. “Il mondo che verrà” è anche il titolo del programma televisivo che ogni settimana propone le lezioni di economia del prof. Romano Prodi, in cui vengono disegnati i possibili scenari del dopo-crisi: nella prima lezione, dedicata alla “sfida dei continenti”, il professore ha spiegato come nel giro di pochi decenni la Cina supererà gli Usa e la vecchia Europa, assurgendo al ruolo di prima potenza mondiale. Un dato decisamente preoccupante, se si considera che stiamo parlando di un Paese che associa l’incessante crescita economica alla perdurante indifferenza verso i diritti umani. Si dirà che anche l’Occidente, in questi ultimi decenni, sotto lo slogan della “guerra umanitaria” ha spesso nascosto una violazione di quei diritti. E certamente anche qui vanno visti i segni del tramonto. Eppure c’è chi questi segni li ha intravisti già molto prima e non sulla superficie degli avvenimenti politici e militari, ma più in profondità, alla sorgente viva del pensiero. Sono stati quei filosofi che, già in pieno Ottocento e totalmente isolati dal circostante mondo della cultura, hanno visto la via della verità guidarli verso Oriente. Fra questi, il giovane Schopenhauer che, in un’epoca dominata dallo strapotere accademico di Hegel, alfiere della società borghese occidentale, ebbe il coraggio di guardare oltre il “velo di Maya”, mettendosi alla scuola dei sacri testi indiani delle Upanishad; e il genio ribelle per eccellenza, quel Nietzsche che fece parlare l’antico mistico Zarathustra e vide nei popoli dell’Est l’incarnazione dell’elemento dionisiaco che è innanzitutto ebbrezza vitale. Profeti, visionari, lucidi analisti di processi di trasformazione del quadro mondiale che cominciavano a germinare allora e che oggi manifestano chiaramente le loro più estreme conseguenze. All’Occidente che oggi vede tramontare la sua stella mentre sorge quella dell’Oriente, suonano di ammonimento i versi che Schopenhauer dedicò agli emissari della cultura europea, giunti ad Est con la spocchia dei civilizzatori:

“Voi andaste colà come maestri
E ne ritornaste come discepoli
Dell’ascoso senso
Là caddero per voi i veli”
(Sull’etica, in Parerga e paralipomena, VIII, 115)