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Il nucleare dimenticato dall’informazione. Greenpeace denuncia: stress test delle centrali europee pieni di lacune

di Stefano Santos

Il fatto che i media, soprattutto italiani, abbiano da tempo smesso di parlare quotidianamente del disastro di Fukushima non significa che il problema sia terminato. Infatti la storia ha insegnato che ogni incidente in cui sia coinvolta l’energia nucleare non si ferma all’evento in sé, né quando tutti i detriti o macerie vengono portate via. La memoria va subito indietro al disastro di Cernobyl, i cui effetti devastanti si fanno sentire ancora dopo venticinque anni, e al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, in cui ancora vi è un’esposizione alle radiazioni maggiore rispetto al normale, e che da sessant’anni si trascina il problema sociale degli Hibakusha, cioè i “sopravvissuti all’esplosione”.
E’ evidente quindi che il problema della centrale nucleare di Fukushima richiederà più tempo di quanto ci si aspettasse. E’ notizia del 28 ottobre 2011 che la Commissione per l’energia atomica ha stilato un rapporto in cui veniva calcolato in più di trent’anni il tempo necessario affinché vengano smantellati i reattori della centrale danneggiati dal terremoto e dallo tsunami. Un lasso di tempo paragonabile all’attesa ancora vana per una copertura stabile per il nocciolo del reattore numero 4 di Cernobyl, il cui sarcofago di cemento armato cede in più punti e non potrà resistere a lungo. Un’attesa di cui le prossime generazioni porteranno il fardello, che nel tempo sembra che si appesantirà di più, vista la continua preoccupazione per le notizie che le principali agenzie battono giorno dopo giorno, tanto per pressione mediatica, tanto per l’effettiva gravità di queste. Uno studio pubblicato dalla rivista “Atmospheric Chemistry and Physics” riporta l’esame condotto da un gruppo di ricercatori norvegesi sui dati di decine di stazioni per il rilevamento delle radiazioni, che rileva come l’entità della nube generata dal disastro possa essere doppia rispetto a quanto affermato dalle autorità giapponesi, mentre le stesse, il 13 ottobre, hanno rilevato elevati livelli di radiazioni nell’area residenziale di Setagaya a Tokyo, e hanno disposto l’interdizione della zona per motivi di precauzione, sebbene non vengano reputate come minacciose per la salute. Infine, il 26 ottobre 2011, una fuga di acqua radioattiva dalla reattore della centrale di Tokai, ha indotto il sindaco della città omonima a chiederne la chiusura sottolineando l’età avanzata della struttura e il fatto che si trovi in un’area densamente abitata. La vicinanza temporale tra queste notizie evidenzia la continua attenzione che i media giapponesi stanno avendo per la questione.
E in Europa?
L’Unione Europea, all’indomani del disastro di Fukushima, aveva richiesto ai vari enti nazionali per la sicurezza nucleare di effettuare dei test da pubblicare entro il 31 ottobre, sulla capacità degli impianti di resistere alle calamità naturali. La denuncia, che parte da Greenpeace, è che sulle diecimila pagine pubblicate finora, vi siano molte situazioni non previste e ignorate, come danni contemporanei a più reattori o la caduta di un aereo. In più, vi sono differenze nella qualità dei dati pubblicati dai vari Paesi: in Francia, in cui il controllore nazionale è indipendente da chi possiede le centrali, i test sono stati completi e rigorosi, mentre paesi come Svezia e Regno Unito hanno prodotto dati più superficiali e parziali. Clamoroso il caso della Repubblica Ceca, che per sei centrali è riuscita a produrre un rapporto di sole sette pagine, confrontato a quello della Slovenia, che per una sola centrale ne ha presentato uno di ben 177 pagine.
Fa preoccupare il lassismo e la noncuranza nell’affrontare un tema delicato come questo, soprattutto alla luce delle tante centrali concentrate in un’area relativamente piccola quale l’Europa. Parte di queste sono lasciti dell’eredità sovietica e ormai considerate obsolete. E’ sempre così: “spegnere” un reattore è molto più complicato che accenderlo.