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Ritorno all’isola che non c’è

di Gianmarco Botti & Renata Rallo

Quanti di voi possono dire di non aver mai visto un cartone Disney? Di non aver mai amato un personaggio nato dalla più famosa casa di animazione di sempre?
Per chi si ritrovasse in una di queste categorie ci sono due possibilità: o smetterà di leggere l’articolo sentendosi escluso oppure potrà unirsi a coloro che sono stati o sono tuttora, come noi, accaniti seguaci della magia Disney e continuare a leggere per capire fin dove due fanatici disneyani di una certa età vogliano spingersi. Nel secondo caso sarà necessario partecipare a quello che è l’evento ispiratore di questa nuova mini-rubrica: l’uscita, proprio oggi nelle sale cinematografiche italiane, del trentaduesimo classico della Walt Disney, “Il Re Leone”.
Perché, cari amici (oramai avete deciso di continuare a leggere, per cui ci prendiamo questa confidenza), il punto sta proprio qui: cos’è che fa di un film di animazione un “classico”, un’opera che resta nel tempo e che continua a suscitare l’interesse di generazioni di bambini e adulti, al punto da poter essere riproposto al cinema, a diciassette anni dalla sua prima uscita, in un nuovo, sfavillante formato 3D? Cosa c’è di nuovo da imparare in un film che, bene o male, conosciamo tutti? (E voi, proprio voi, voi che non lo conoscete: andate a vederlo!). Da questa domanda nasce la presente rubrica, scritta a quattro mani da due grandi amanti della Walt Disney e delle sue creazioni, una rubrica che non si limiterà a prendere spunto dai grandi capolavori ma vorrà tentare di analizzarli alla luce di una nuova visione.
Cosa c’è di nuovo da imparare? Qual è il messaggio profondo che la Disney ha cercato di insegnarci, raccontando storie di principesse, mostruose creature e teneri animali?
Noi, bambini degli anni ’90 cresciuti a pane e Disney e oggi “adulti” ma mai del tutto guariti dalla “sindrome di Peter Pan”, mai liberati completamente da quella parte che di diventare grande non ne vuol sapere, conosciamo la risposta. Ce l’hanno insegnata, uno dopo l’altro, i capolavori d’animazione firmati Disney che, con un ritmo quasi annuale, hanno fatto il loro ingresso nei cinema e nelle case di tutto il mondo in quel meraviglioso decennio che i critici definiscono “Rinascimento disneyano”.
“La Bella e la Bestia”, “Aladdin”, “Il Re Leone”, “Il Gobbo di Notre-Dame”, “Mulan”, “Tarzan”. E prima ancora, “Biancaneve e i sette nani”, “Pinocchio”, “Cenerentola”, “La carica dei 101”, “Il libro della giungla”, solo per citarne alcuni. Un’unica, magica tradizione che parte con il leggendario “zio Walt” e quel primo lungometraggio a cartoni animati che nel lontano 1937 rivoluzionò Hollywood, per proseguire attraverso i decenni grazie al talento di nuovi brillanti disegnatori e screenwriters che l’hanno portata fino alle soglie del Terzo millennio e dell’era digitale. E sì, perché negli ultimi anni il filo della tradizione si è spezzato: le tecniche di animazione tradizionale sono state abbandonate quasi del tutto in favore della più veloce e meno costosa computer grafica. E se il mitico “Toy Story”, primo esperimento in questo senso, si inscrive ancora a buon diritto nel canone dei capolavori Disney, le realizzazioni successive sono state caratterizzate da un abuso di espedienti tecnici che cerca disperatamente di coprire una certa carenza di trame convincenti. Le grandi storie, attinte dall’universo delle fiabe e dei romanzi più celebri, sono state messe da parte per fare spazio a soggetti di scarso respiro (come si può paragonare “Alla ricerca di Nemo” a “La Bella e la Bestia”?).
Eppure non è il caso di dare troppa voce allo sfogo nostalgico di vecchi fan della Disney e alla ironica (ma neppure tanto) compassione per le nuove generazioni alle quali, invece di mondi fantastici e castelli incantati, resteranno simpatici pesci pagliaccio e automobili parlanti.
Da piccoli eravamo rapiti dalle musiche, dai colori e dalla tenerezza dei disegni e certo sarebbe stato inutile chiedere ad un bambino di analizzare da un punto di vista critico, storico, filosofico, letterario ciò che per lui era solo fonte di intrattenimento.
Ed ecco il motivo “serio” con il quale giustificare il nostro profondo desiderio di tornare a giocare.
Cercheremo di cogliere, destreggiandoci nella selva intricata di ricordi ed emozioni infantili e sfruttando quel po’ di lucidità e spirito di osservazione che gli anni della maggiore età e gli studi di Filosofia ci stanno insegnando, gli spunti per la riflessione, il ragionamento e il dibattito sui grandi temi che questi film offrono allo spettatore attento. Uno spettatore che all’occhio del bambino affianca quello dell’adulto e così facendo scoprirà una profondità che finora gli era rimasta sconosciuta. L’amore, la morte, la diversità, l’ecologia, i rapporti generazionali. La vita. Un classico è tutto questo.
Scriveva Calvino: “D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”. Una rilettura che, appunto, ci proponiamo di compiere in questa rubrica. La riscoperta di quello spazio incontaminato dentro di noi che, come “l’isola che non c’è”, è rimasto negli anni in attesa del nostro ritorno.