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Dall’arte al consumo

di Giacomo Palombino

Nel Novecento si verifica una circostanza di notevole interesse: si delinea una distinzione tra la musica d’arte e la musica di consumo. Proprio in riferimento a quest’ultima, troppo spesso, si è soliti utilizzare il termine “commerciale”. Troppo spesso perché lo si utilizza senza una cognizione di causa, senza sapere cosa veramente stia a significare. Cerchiamo allora di capire cosa intendiamo quando definiamo una canzone o un cantante “commerciali”.
Partiamo da una prima osservazione: quando una persona utilizza questo termine in riferimento ad un’artista o ad un brano musicale, lo fa in maniera dispregiativa, lo utilizza come per dire che quella che si sta ascoltando è roba di poco conto. Ma “commerciale” è sinonimo di “commerciabile”. Sta a significare, cioè, che un prodotto, messo sul mercato, avrà modo di essere venduto. Già, un prodotto. Perché la musica è anche questo, e spero di non dire niente di sconvolgente definendo l’arte intera come un prodotto. Perché, dimenticandoci per un attimo i sentimenti e le emozioni che questa deve e riesce a trasmettere, costituisce comunque qualcosa che sarà venduto e quindi darà vita a dei profitti. Qualcuno potrebbe però giustamente dire che la parola “commerciale” ha un’accezione negativa in quanto, nel caso in cui la si utilizza, il prodotto è creato in maniera tale che la vendita sarà particolarmente semplice. Ma accanto ad un prodotto, non dimentichiamolo, c’è un produttore, nel nostro caso un cantante; e, anche qui spero di non sconvolgervi, questo, oltre ad essere un artista che emoziona e fa riunire i suoi fan dentro stadi e piazze, è anche un professionista, una persona che scrive e canta i suoi brani perché quello è il suo mestiere, è quello il modo tramite il quale percepisce un guadagno.
Ricapitolando, se date ragione alle mie parole, quando parliamo di musica “commerciale” ci riferiamo ad un prodotto particolarmente buono, dato che tramite questo, il nostro famigerato cantante venderà migliaia di dischi e potrà continuare a trascorrere con i ricavi di un unico brano il resto dei suoi giorni. Ma la critica, che in questo caso è un’autocritica, è che lì dove si verifica una vendita facile c’è un prodotto strutturato in maniera tale da coinvolgere e quindi costringere le masse a comprarlo; siamo di fronte al cosiddetto “tormentone”. Allora invito il lettore a porsi una domanda: “Cosa spinge la gente a preferire e quindi comprare un album piuttosto che un altro?”. La mia risposta è la semplicità, il modo diretto ed agevole con il quale un’opera viene proposta al pubblico; questo è stato infatti il motivo per il quale si è venuta a verificare la distinzione a cui già ho fatto cenno tra musica “colta” e musica leggera, in quanto la prima, a causa della ricerca dodecafonica, ha sviluppato con il tempo un linguaggio complesso e inaccessibile ai comuni ascoltatori. Se siete in macchina e la radio vi trasmette un pezzo di musica classica, la stragrande maggioranza di voi cambia stazione. Lo stesso, ma forse in misura minore, avviene con un pezzo Jazz. Ma se la radio passa una canzone pop o comunque di uno di quei cantanti che, come si suol dire, “piace tanto alle ragazzine”, saranno notevolmente di meno quelli che cercheranno un altro brano. Molti cominceranno a cantare, alcuni batteranno di nascosto i piedi a ritmo per non frasi vedere dagli amici, altri spegneranno la radio disperati a causa della sorellina che piange e vuole ascoltare il suo artista preferito.
Fin qui spero di essere stato abbastanza chiaro, perché, se così è e se condividete almeno in parte il mio pensiero, capirete anche che tutta la musica è commerciale. Ma è vero anche che non tutta la musica è di buona qualità. I Pink Floyd hanno venduto nella loro carriera circa 250 milioni di dischi in tutto il mondo, divenendo uno dei gruppi più ascoltati e seguiti nella storia. I Tokio Hotel, di gran lunga più giovani, ne hanno venduti circa 5 milioni, e sono considerati una fra le band rivelazione di questo decennio. Ma un paragone è possibile? Non me ne vogliano i fan di Bill Kaulitz, ma io non credo proprio. Mentre i primi erano musicisti di talento che hanno saputo comporre musica di altissimo livello e sono stati ripagati per questo dal pubblico, gli altri sono un gruppo creato e spinto sulla scena musicale solo per fare guadagni: sono, si potrebbe dire, loro stessi il prodotto di intuizioni e indagini di mercato.
Quello che voglio dire è che, quando dovete giudicare negativamente una canzone o un cantante, non limitatevi ad utilizzare un’unica parola, ma sottolineate la qualità scadente di quello che ascoltate. Altrimenti, gente come Freddy Mercury finirà inevitabilmente per essere etichettata nello stesso modo in cui ciò accade per nuovi “talenti” della scena musicale: “Cambia stazione, è il solito pezzo commerciale”.