di Gianmarco Botti
“Io non sono contrario in tutti i casi e in tutte le circostanze alla rivoluzione violenta. Io credo, con alcuni pensatori cristiani del Medioevo e del Rinascimento, i quali ammisero il ricorso al tirannicidio, che, sotto una tirannide, può davvero non esserci alcuna altra possibilità e che una rivoluzione violenta può essere giustificata. Ma credo anche che qualsiasi rivoluzione del genere debba avere come scopo soltanto l’instaurazione di una democrazia; e per democrazia non intendo affatto qualcosa di vago come il governo del popolo o il governo della maggioranza, ma un insieme di istituzioni (e fra esse specialmente le elezioni generali, cioè il diritto del popolo di licenziare il governo) che permettono il controllo pubblico dei governanti e il loro licenziamento da parte dei governati e che consentano ai governati di ottenere riforme senza ricorrere alla violenza e anche contro la volontà dei governanti. In altre parole, l’uso della violenza è giustificato solo sotto una tirannide che renda impossibili le riforme senza violenza e dovrebbe avere soltanto un obiettivo: quello di realizzare uno stato di cose che renda possibili le riforme senza violenza”
(Karl Popper, “La società aperta e i suoi nemici”)
“Le istituzioni sono state più forti di un uomo. La chiusura di questa esperienza politica avviene dentro le regole. Quelle regole che Berlusconi ha contestato e contrastato. Ci si poteva legittimamente aspettare un finale doloroso, alla Caimano di Nanni Moretti. Invece, pur con le sue contraddizioni, la democrazia italiana e il sistema parlamentare hanno dimostrato di essere più forti degli abusi di Berlusconi”
(Dario Franceschini)
Il raìs è ferito e debole. Lo circondano da tutte le parti, gridano, gli sputano addosso, lo prendono a schiaffi. Il volto gli si copre di sangue e di qualcosa che sangue non è. Piange. Implora pietà. Pietà per lui non ce n’è, dalla canna della pistola di un ragazzo ventenne parte il colpo fatale, il grilletto è premuto dalla rabbia di una generazione che vuole vivere la sua “primavera”. La Libia è liberata, la democrazia adesso una speranza possibile. Una democrazia acquistata al prezzo del sangue, quello che il raìs ha fatto scorrere a fiumi per un quarantennio di terrore, quello che la guerra “civile”, “umanitaria” di “liberazione” (gli ossimori si sprecano) degli occidentali e dei ribelli ha sparso per mesi sul suolo libico, quello di un capo che si era detto pronto a combattere fino al martirio e così è stato. Si conferma, ancora una volta, l’assioma fondamentale per cui nessun dittatore può sopravvivere al proprio regime. Una necessità ineluttabile, quasi logica. E se lo dice anche Popper, che del pensiero logico e razionale contemporaneo è uno dei maestri assoluti, c’è da fidarsi.
Altro scenario, altri protagonisti, altre vicende. L’Italia con la sua democrazia solida, a cui tutti, da ogni parte dello schieramento politico, si appellano, brandendola talvolta come uno scudo contro ogni tentativo di mettere in discussione leadership consacrate dal voto popolare, contro ogni contestazione di un dominio che a tratti di democratico pare avere poco. Una democrazia vissuta come un dato di fatto, qualcosa di assodato che niente e nessuno può mettere a rischio. Sta proprio qui la sua fragilità e le innumerevoli accuse fioccate in questo ventennio (che molti, in maniera più o meno calzante, hanno accostato ad un altro famigerato ventennio italiano) di “regime”, “deriva autoritaria”, staranno pure ad indicare qualcosa. Popper ci mette in guardia: “La democrazia non può compiutamente caratterizzarsi solo come governo della maggioranza, benché l’istituzione delle elezioni generali sia della massima importanza. Infatti una maggioranza può governare in maniera tirannica”. Eppure è proprio allora, quando massime sono le tendenze autoritarie della maggioranza al governo ed estremo lo scontro fra le parti in lotta nell’agone politico e sociale, che una democrazia ha modo di dimostrarsi veramente tale. “Il criterio di una democrazia è questo: in una democrazia i governanti – cioè il governo – possono essere licenziati dai governati senza spargimento di sangue”. Ecco quel che differenzia anche la più fragile, instabile, vacillante delle democrazie da un regime dispotico o totalitario. Infatti, secondo Popper, “noi abbiamo la scelta tra ragione e violenza”, ed egli si dice convinto che “la ragione sia l’unica alternativa all’impiego della violenza e che sia delittuoso un impiego della violenza evitabile”. E la scelta fra ragione e violenza è in definitiva quella fra democrazia e tirannide. Cos’altro è, d’altronde, la democrazia, se non quel particolare sistema politico che si basa sull’esercizio critico della ragione umana portato avanti nella forma del dibattito in apposite istituzioni dette parlamenti? Non hanno, forse, la forma di stato democratica e quell’attività eminentemente razionale che è la filosofia, una patria comune nell’antica Grecia in cui videro la luce per la prima volta tanto il dibattito nelle assemblee quanto il dialogo filosofico? Sull’altro versante, la storia insegna come sia la violenza la base sulla quale nascono, si reggono per tutto il loro sviluppo e infine crollano i regimi tirannici. Eppure le cose non sono sempre così semplici. Come la mettiamo quando il buon nome della democrazia si presenta offuscato dall’ombra infamante della violenza? Può la democrazia nascere da un atto di violenza? La storia delle nazioni recente e passata sembra dare una risposta incontrovertibile: ed è qui che le vicende della Libia e quelle dell’Italia finiscono per incrociarsi, nella macabra somiglianza delle terribili immagini del corpo straziato di Gheddafi con certe foto d’archivio scattate a Piazzale Loreto. La teoria popperiana ne esce verificata. Con tutte le sue ambiguità, che sono quelle della democrazia stessa: una forma di governo che si fonda sulla ragione e il rifiuto della violenza per risolvere i conflitti, eppure certe volte per poter nascere ha bisogno proprio della violenza. Non sappiamo se la Libia del domani, nata dal sangue di Gheddafi e dalle grida di giubilo di una gioventù in cerca di futuro, sarà veramente democratica. Questo sessantennio di vita repubblicana, invece, leva ogni dubbio sul conto dell’Italia. E lo confermano anche gli ultimi eventi: il crollo di un potere ventennale cui, nei momenti più accesi dello scontro politico, pareva potesse porre fine solo la sentenza di un tribunale o il lancio di una statuetta, avvenuto invece nell’alveo delle regole democratiche. L’era berlusconiana si è chiusa in Parlamento. È la vittoria della democrazia. E così, molto più valore assumono le esplosioni di entusiasmo fuori Montecitorio e Palazzo Grazioli, rispetto ai festeggiamenti dei giovani di Sirte intorno ad un cadavere inerme.